sabato 5 settembre 2009

7. Italici, Etruschi e Romani

7.1. Italici
Intorno al XX secolo, nella Penisola italica le popolazioni tendono a vivere in villaggi e chiefdom, mentre sono in aumento la densità demografica, gli scambi commerciali, anche a lunga distanza (grazie anche alla maggiore richiesta di beni che proviene dai capi villaggio), la produzione artigianale di manufatti metallici (grazie anche alla lavorazione del piombo, del rame e dell’argento), tessili (diffusione del telaio) e di altro genere (ceramica, ambra, pelli), oltre che agricola (grazie anche alla diffusione dell’uso dell’aratro a trazione animale). Nello stesso tempo si va diffondendo l’olivicoltura e l’allevamento di suini e bovini di piccola taglia per un impiego prevalentemente alimentare. Si va diffondendo anche la pratica del disboscamento allo scopo di recuperare nuovi spazi coltivabili. Ovviamente, la produzione dei generi alimentari aumenta e, con essa, anche la popolazione che, per il momento, tende a preferire gli accampamenti temporanei al centro delle zone di pascolo.
Solo alla fine del XVII secolo la densità demografica della penisola italica raggiunge un livello tale da costringere i numerosi gruppi di pastori, che vivono allo stato seminomade, o di contadini, che risiedono sparsi in piccoli villaggi, ad insediarsi stabilmente in un territorio, organizzarsi e competere, fino alla guerra. Si afferma così la cosiddetta civiltà della terramare nell’Italia del nord, dove le popolazioni vivono in villaggi di palafitte, praticano l’agricoltura e lavorano il bronzo. Fino a questo momento, “non ci sono in Italia testimonianze che facciano presupporre l’esistenza di raggruppamenti etnici di un qualche rilievo” (BERNARDI 2004: III, 72). Non ci sono, in altri termini, popolazioni che abbiano la consapevolezza di appartenere ad un particolare gruppo etnico: non ci sono etruschi, latini, sabini, sanniti, umbri, liguri, veneti, e via dicendo. C’è però una tendenza al passaggio dalla pastoria seminomade a quella transumante e alla sedentarizzazione, che spinge le varie popolazioni locali verso una maggiore fusione e organizzazione, al fine di poter quanto meno difendere i propri pascoli e i propri armenti da azioni di pirateria, che si fanno sempre più frequenti, specie nelle aree costiere.
Tra l’XI e il X secolo, in un’area compresa fra le valli del Po e il Lazio settentrionale, la scoperta del ferro inaugura una nuova civiltà, che verrà chiamata villanoviana da Villanova, un piccolo centro nei pressi di Bologna, dove è stata scoperta una necropoli. Le condizioni sono favorevoli per l’affermarsi di leader e condottieri, in grado di approntare sistemi di difesa, ma anche di guidare azioni di razzia a danno di popolazioni vicine. Il pericolo più grave è rappresentato dallo sconfinamento di popolazioni limitrofe o da una penetrazione in massa di tribù che, spesso a loro volta pressati da altri gruppi, vengono, sotto la guida di un capo, con l’intenzione di trovare uno spazio libero in cui insediarsi e disposti a tutto, pur di non ritornare indietro. In questi casi i clan indigeni rischiano di essere annientati, a meno che non siano in grado di rispondere con pari forza e affrontare una guerra. Talvolta, invece, gruppi diversi trovano il modo di integrarsi in modo pacifico.

7.2. Gli Etruschi
Qualcosa del genere si verifica con l’”arrivo” degli Etruschi nella penisola italica (IX secolo), un popolo ancora in buona parte misterioso. Erodoto dice che provengono dalla Lidia, altri dai Balcani, mentre, secondo Dionigi d’Alicarnasso, costituiscono una popolazione autoctona (TORELLI 2001: 28). Le tre versioni non sono necessariamente incompatibili. È possibile, infatti, che questi uomini, allontanatisi dalla loro patria, a seguito di una “tremenda carestia”, siano giunti nella penisola italica dopo un lungo peregrinare nella regione dei Balcani e si siano fermati in Etruria, perché solo lì hanno trovato gente poco organizzata, poco aggressiva e disposta a convivere pacificamente.
Compresa tra l’Arno e il Tevere, la regione che corrisponde all’odierna Toscana, è fertile, ricca di giacimenti di rame, argento, piombo e ferro, e adatta all’allevamento di bestiame, insomma un luogo ideale per i nuovi arrivati, in tutto 1-2 mila persone, che sono perfettamente in grado di sfruttare adeguatamente quelle risorse. Ma da soli, lo capiscono bene, non ce la farebbero mai. Sono troppo pochi e, anche se riuscissero ad imporsi sui clan locali, difficilmente sarebbero poi in grado di resistere agli attacchi che altre potenti popolazioni limitrofe potrebbero sferrare in ogni momento. Decidono allora di evitare l’uso della forza e tentano di guadagnarsi la cooperazione degli indigeni attraverso una politica di apertura. Questo inconsueto comportamento ha l’effetto di disorientare i locali, i quali si dividono e, un po’ alla volta, finiscono tutti per accettare la convivenza pacifica, che trovano vantaggiosa. Grazie ad essa, infatti, i nuovi arrivati, Lidi o Balcani che siano, possono integrarsi con i clan indigeni fino a costituire un popolo, gli Etruschi appunto, o Tirreni, come li chiamano i Greci.

7.2.1. Città-stato
Fino agli inizi dell’VIII secolo, non ci sono prove archeologiche dell’esistenza di un potere centrale. Dobbiamo dunque supporre che i singoli clan fossero sovrani. Dagli inizi dell’VIII sec., i villaggi etruschi crescono demograficamente e cominciano a trasformarsi in città-stato, simili alle poleis greche e alle monarchie democratiche degli ittiti e dei fenici, organizzate sotto la guida di un principe, chiamato lucumone, i cui poteri sono limitati da un Consiglio “democratico”, composto da tutti i capi-famiglia, detto Curia. “La grande ricchezza è nelle mani di pochi, gli aristoi, che conducono una vita basata sul lusso” (CAMPOREALE 2000: 81). Nello stesso tempo, le famiglie più facoltose tendono a stringere fra loro opportune alleanze matrimoniali, allo scopo di elevare il più possibile il proprio status, e cominciano a distinguersi dal resto della popolazione sia perché risiedono in abitazioni migliori, sia perché ostentano oggetti di lusso. Il gruppo familiare (o clientelare) tende a lasciare nell’ombra il valore della singola persona e si eleva fino al punto da costituire “un’élite ormai pienamente conscia del suo ruolo sociale e caratterizzata da un’evidente volontà di distinguersi dal resto della comunità” (GUIDI 1992: 457). Contemporaneamente si vanno diffondendo le botteghe degli artigiani e aumenta la produzione dei beni di prestigio. I signori devono avere un largo seguito di clienti e un notevole ascendente su buona parte della popolazione se possono già permettersi la costruzione di fortificazioni e una pratica funeraria differenziata per classi.

7.2.1.1. Come nasce una città-stato
Per comprendere come sia stata possibile la nascita della città-stato, dobbiamo partire dalla preesistente cultura di clan. Un clan è un insieme di famiglie apparentate, che si ritengono discendenti da un antenato comune e comprendono centinaia di persone, che riconoscono un’autorità simbolica ad un capo clan, che di norma è l’uomo più anziano. Un clan numeroso e saldamente unito sotto la guida di un capo intelligente e capace può mettere in campo una squadra di un centinaio di uomini armati, tale da incutere paura e rispetto a chicchessia. Questo clan non solo esercita il controllo su un certo territorio, ma anche su clan minori e su singole famiglie, che a lui si appoggiano a scopo difensivo, nei confronti di altri potenti clan, che potrebbero insidiare le loro vite e le loro risorse. In condizioni di benessere e di pace, i clan minori conservano una loro relativa sovranità, alla quale però devono rinunciare in caso di pericolo, quando è fondamentale unire le forze sotto un capo comune. In questi casi, un capo clan può estendere il suo comando a migliaia di persone e contare su un esercito di centinaia di uomini armati. Cessato il pericolo, tutto ritorna come prima. Un capo clan particolarmente abile e ambizioso può condurre i suoi uomini ad azioni di intimidazioni, estorsioni e razzie a danno di altri clan, comportandosi di fatto come un capo banda, che pratica azioni di razzia e si serve del terrore per indurre altri a sottomettersi e a concedere favori e parte dei propri beni.
In questo periodo il banditismo non ha connotazioni riprovevoli, ma costituisce un modo ordinario di procurarsi le risorse necessarie e assicurare una vita agiata alla propria gente. Quando c’è abbondanza e non ci sono pericoli, il capo banda se ne sta inoperoso e i singoli clan riacquistano la propria sovranità. Il generale incremento demografico, che si registra in Etruria agli inizi dell’VIII secolo, genera un incremento dell’aggressività fra i vari clan, tanto da indurli a rafforzarsi e portare in auge la figura del capo. Da questo momento, i clan minori devono cedere definitivamente la propria sovranità al clan più potente, che adesso ha maggiori chance per competere nella sempre più dura lotta per il controllo del territorio e delle risorse. Ora i capi clan sono figure stabili e possono fregiarsi dei simboli del potere, risiedere in una casa adeguata al rango e pretendere delle esequie fuori dall’ordinario. Il villaggio in cui sorge la loro abitazione si ingrandisce, si stratifica e si dota di fortificazioni, così da costituire il centro nevralgico del territorio controllato da quel clan. Tale è la situazione nell’Etruria agli inizi dell’VIII secolo, quando le lotte fra capi villaggio portano o al prevalere di uno sugli altri, e quindi alla costituzione di un villaggio alfa, che comincia ad assumere le sembianze di una vera e propria città, oppure all’unione (sinecismo) di diversi villaggi a scopo difensivo, pur conservando ciascuno la propria sovranità.
La prima città ad essere fondata è Veio. Poi sarà la volta di Fiesole, Volterra, Perugia, Chiusi, Todi, Orvieto, Tarquinia e altre città-stato indipendenti, che, seppure non si fanno guerra a vicenda, come le poleis greche, tuttavia non vogliono saperne di unificarsi, accontentandosi di un generico vincolo confederativo. Durante il VII secolo, gli etruschi estendono il loro controllo sul Tirreno, dove praticano la pirateria e la guerra da corsa, ovvero “il commercio tutelato da scorte militari” (MOSCATI 1987: 161). Intorno alla metà del VII secolo, giunge a Tarquinia, con ampio seguito, Demarato, un facoltoso commerciante corinzio, che sposa una ricca donna locale, da cui ha due figli, uno dei quali, di nome Lucumone, conquisterà il potere regio a Roma, assumendo il nome di Tarquinio (Prisco).

7.3. Il Lazio
Mentre ciò avviene, il Lazio è abitato da numerose popolazioni di pastori-agricoltori che, essendo in fase di crescita demografica, entrano fra loro in stretto rapporto e creano le entità “nazionali” dei Latini (area della foce del Tevere), dei Volsci (fra Lazio e Campania), Sabini (Lazio nord-orientale) ed Equi (Lazio sud-orientale), che sono organizzate sotto la figura di un capo, il cui potere è limitato dal Consiglio dei capiclan. Approfittando della loro superiorità, gli Etruschi avanzano in ogni direzione possibile e assoggettano le popolazioni che non sono in grado di opporre loro una valida resistenza. Mentre ciò avviene, il Lazio è abitato da numerose popolazioni di pastori-agricoltori che, essendo in fase di crescita demografica, entrano fra loro in sempre più stretto rapporto e, nel tentativo di differenziarsi e affermarsi, creano le entità “nazionali” dei Latini (presso la foce del Tevere), dei Volsci (fra Lazio e Campania), dei Sabini (nel Lazio nord-orientale) e degli Equi (Lazio sud-orientale), che sono organizzati sotto la figura di un capo, il cui potere è limitato dal Consiglio dei capi clan.
Alla fine del VII sec., gli Etruschi invadono il Lazio e cominciano a nutrirlo della loro superiore cultura. I loro costruttori, gli artigiani, i mercanti, i medici, gli esperti nell’arte politica o nelle pratiche religiose, a poco a poco, trasformano alcuni di quei villaggi in vere e proprie città. Le carovane di mercanti etruschi, dirette alla città greche della Campania, attraversano il Tevere, nei punti in cui le acque del fiume sono particolarmente basse, vale a dire in vicinanza dell’area dove sorgerà Roma, che adesso è abitata da rudi pastori e contadini, i quali vivono in piccoli villaggi di capanne sui colli Esquilino e Palatino.

7.4. Roma
Secondo la leggenda, dopo la caduta di Troia, quando ancora Roma è un insignificante villaggio, l’eroe troiano Enea si dirige in Italia, dove fonda la città di Lavinio, mentre, alcuni anni dopo, suo figlio Ascanio, o Iulo, fonda Alba Longa, che, per molti anni, sarà la città più importante del Lazio. Ai tempi in cui Alba Longa è governata dal re Numitore, avviene che il malvagio Amulio, il di lui fratello, spodesti il re e costringa sua figlia, di nome Rea Silvia, ad abbracciare la verginità sacerdotale. Ma Rea Silvia viene amata dal dio Marte e da quella unione nascono due gemelli, Romolo e Remo, i quali, per evitare di cadere nelle mani di Amulio, vengono affidati alle acque del Tevere e salvati da una lupa. Divenuti adulti, essi uccidono lo zio e restituiscono il regno al buon Numitore, ottenendone in cambio il permesso di fondare una nuova città, che viene chiamata Roma. Romolo ne diviene il primo re dopo aver ucciso il fratello.
In realtà nulla sappiamo di certo né sulla fondazione di Roma, né su Romolo o Remo e, come al solito, quello che sappiamo è in parte frutto di immaginazione. Secondo Livio (II, 1), il popolo romano trae origine da un’accozzaglia di pastori, transfughi e gente raccogliticcia, che di norma sono costituiti da famiglie allargate e da clan, all’interno dei quali il pater familias e il capo clan esercitano un potere assoluto e sovrano, ma, talvolta, si organizzano sotto la guida di un re, in modo da formare un corpo politico “nazionale”. È possibile che Romolo e Remo siano in realtà i capi di due potenti clan pastorali che affollano la regione della foce del Tevere, insieme a molti altri clan dei Latini. Da anni essi traggono una ragguardevole quantità di beni dagli assalti alle carovane etrusche in transito, anche se sanno che poi dovranno aspettarsi le immancabili rappresaglie, per meglio difendersi dalle quali Romolo e Remo cercano e ottengono senza fatica l’appoggio di altri capi clan.
La situazione per gli etruschi comincia a diventare seria e, dovendo decidere se affrontare il problema con uno scontro aperto oppure con un’azione indiretta, si risolvono per questa seconda e riescono a mettere l’uno contro l’altro i due capi, a ciascuno dei quali promettono separatamente di fare di lui un re, se riesce ad imporsi sull’altro. I due si preparano allo scontro e cercano alleati, ma è Romolo ad ottenere un appoggio che si rivelerà prezioso, quello di un potente clan sabino. Alla fine ha la meglio Romolo, che uccide Remo e pone sotto il proprio controllo numerosi clan del Lazio, ma, non avendo né i mezzi né le capacità per organizzare un regno, deve accettare l’intervento degli etruschi, che lo aiutano a fondare e governare una città, che assume il nome inequivocabilmente etrusco di Rumon, ossia la città del fiume, cioè Roma (753 ca.).

7.4.1. I primi storiografi di Roma
Livio visse a cavallo della nostra era, ma non fu il solo a scrivere della storia di Roma. I primi storiografi di Roma, Timeo, Fabio Pittore e Cincio Alimento, vissero nel III secolo, Marcio Porcio Catone nel II, Diodoro Siculo, Marco Terenzio Varrone e Dionigi di Alicarnasso nel I secolo. La distanza che li separa dalle origini di Roma è di almeno mezzo millennio: troppo per pretendere da essi un racconto storico corrispondente al vero. La discordante datazione della fondazione di Roma (Timeo la colloca nell’814, Marrone nel 753, Fabio Pittore nel 748, Cincio Alimento nel 728) dimostra i limiti di conoscenza di questi studiosi. Per nostra fortuna, oggi disponiamo di una maggiore documentazione, soprattutto di natura archeologica, e di maggiori mezzi di indagine, talché ci è possibile tentare una ricostruzione più verosimile dei fatti che segnano l’origine di Roma.

Già nel IX secolo abbiamo attestazioni che i celeberrimi «sette colli» di Roma sono abitati da gruppi tribali con caratteristiche dello chiefdom, distribuiti in clan o gentes (come qui si chiamano), più o meno potenti. Ormai il nome della famiglia biologica non è più sufficiente a definire una persona, occorre anche quello della gens, senza del quale un uomo è come privo di protezione e alla mercè di qualsiasi prepotente. Comincia così a diffondersi l’uso del doppio nome “per indicare l’appartenenza ad un gruppo più ampio della famiglia nucleare” (MOMIGLIANO 1989: 36). Secondo Momigliano, queste prime gentes si comportano come vere e proprie bande, che ricorrono alla forza per far valere i propri interessi su quelli di altre gentes e, a maggior ragione, su quelli che vivono fuori da una gens. L’unico modo di sopravvivere per questi ultimi è quello di entrare nell’orbita di una gens, come “clienti”. Il capobanda, da un lato acquista prestigio dall’appoggio dei suoi uomini e dei suoi clienti, dall’altro lato li ricompensa con terre, bottino e lavoro.
Nell’VIII secolo la situazione è questa: il clan di Romolo risiede sull’Aventino, mentre gli altri colli e l’area circostante Roma e fino al Tirreno sono occupati dai Latini e dai loro chiefdom, i più importanti dei quali sono Preneste, Ariccia e soprattutto Alba Longa. Questi clan, che in un primo tempo sono divisi e in lotta fra loro, sotto la minaccia etrusca si uniscono in una Lega (Septimontium), all’interno della quale Alba Longa occupa un posto preminente. È in questo contesto che opera Romolo, il capo villaggio dell’Aventino. Il fatto che egli sia proclamato re sta a dimostrare la volontà dei vari clan di unirsi in un sol popolo e di darsi un’organizzazione, per poter meglio affrontare le sfide del tempo. Cosa fa allora Romolo? Segna i limiti territoriali dei diversi clan, che risultano essere trenta, e dà a ciascuno di essi il nome di curia (da co-viria = comunità di persone). A ciascuno vengono assegnati due iugera di terra (= 5047 m2), di più se ha famiglia. Inizia così la sua opera riformatrice. Tutti i maschi adulti di ciascuna curia costituiscono l’assemblea popolare, chiamata comizio curiato, che ha funzione consultiva, acclama il re e accetta le leggi proposte dallo stesso. Ciascuna curia ha il dovere fornire al re, in caso di necessità, 100 fanti e 10 cavalieri, mentre chiama vicino a sé i dieci capi-famiglia più anziani (Senes) di ogni curia, che formano il Consiglio del re (il futuro Senatus), svolgendo tre importanti funzioni: gestire l’interregno alla morte del re, ratificare le decisioni dei comizi e coadiuvare il re nel governo della città. I Senes, inoltre, su ordine del re, dividono il territorio di loro spettanza fra tutte le famiglie del proprio clan, in modo che ciascun capo-famiglia (pater) abbia la sua parte di terreno. Così nasce a Roma la proprietà privata.
Dopo che queste cose sono state fatte, Romolo, ben consigliato dagli esperti etruschi, allo scopo di confermare e consolidare il suo potere, convoca tutti i comizi curiati e, davanti a loro, pronuncia un discorso, nel quale afferma di aver ricevuto dal suo dio clanico l’ordine di riunire tutti i trenta clan in un unico popolo e di governarli, in nome e per conto di quel dio. L’Assemblea accetta quell’investitura divina e acclama Romolo legittimo re di Roma e di tutte le sue curie. È solo a quel punto che il re dà ordine che gli venga costruita una residenza degna del proprio rango sul colle Palatino con tanto di cinta muraria. La storia di Roma è cominciata. Romolo è adesso il primo re di una città modesta, certo, ma molto superiore in potenza e cultura a tutti i piccoli villaggi che l’hanno preceduta.
Romolo può essere soddisfatto, come lo sono anche gli etruschi, che hanno risolto il problema della sicurezza delle loro carovane in transito e, per di più, possono contare su una città amica, ma si monta la testa e pretende di governare come un despota, senza tenere in debito conto la tradizionale sovranità dei capi clan e soprattutto dei Senes, che reagiscono con furore, mettendo a morte il re e facendone sparire il corpo, il che alimenterà la diffusione della leggenda dell’apoteosi (Livio I, 16), secondo la quale Romolo avrebbe guadagnato la sfera divina da cui proveniva. La fondazione di Roma ad opera di un dio è ciò che serva alla città, una volta divenuta potente, per dare una rassicurante garanzia di eternità al suo impero.
Ai tempi di Romolo (753-16), Roma è una delle tante città del Lazio, come Alba Longa, e confina con alcune popolazioni, tra le quali vanno ricordate quelle dei Sabini, degli Equi, dei Latini e dei Volsci, che stanno percorrendo, o hanno percorso, lo stesso cammino, passando dallo stato tribale a quello urbano e monarchico. Tra queste popolazioni si stabiliscono rapporti stabili e stretti, grazie anche ai legami di sangue maturati attraverso la pratica, sempre più consuetudinaria, di matrimoni esogamici, come attesta la leggenda del ratto delle Sabine. La crescita demografica, che si registra in questo periodo, fa sì che i diversi clan si avvicinino fra loro, intensificando i loro rapporti culturali e commerciali e fondando centri urbani con società stratificate. In particolari condizioni di accesa competizione fra le diverse popolazioni, queste condizioni risultano favorevoli all’affermazione della monarchia.
Sotto Romolo, Roma è fatto oggetto delle mire di capibanda stranieri, che minacciano la città, interferiscono negli affari delle gentes locali e prendono parte alle loro lotte politiche, finendo talvolta per assumere il potere regio. Alla morte di Romolo, sale al trono il sabino Numa Pompilio (715-672), un re pacifico, che lega il suo nome ad alcune riforme in campo religioso. Gli succede il bellicoso re latino Tullio Ostilio (672-40), a cui si deve la presa di Alba Longa e l’inizio della politica espansiva di Roma. Anche in questo caso la leggenda non manca di rimarcare la consuetudine dello scambio di donne tra le popolazioni delle due città, che adesso lottano per l’egemonia. È proprio la constatazione di essere imparentate, che induce le due città a cercare un modo per comporre la contesa, evitando un eccessivo spargimento di sangue, ed ecco allora che si decide di affidare le sorti della guerra ad un duello fra tre gemelli romani (Orazi) e tre gemelli albani (Curiazi). Vincono gli Orazi e, dunque, Roma. Si narra che l’unico Orazio sopravvissuto, vedendo la propria sorella piangere per la morte di uno dei Curiazi, suo fidanzato, non sia riuscito a tollerare quell’atteggiamento d’amore nei confronti di un nemico e abbia trafitto la poveretta con la spada.
Adesso Roma è divenuta la città più potente del Lazio e il nuovo re, il sabino Anco Marzio (640-16), la governa in modo relativamente pacifico, mentre si va profilando all’orizzonte la minaccia degli etruschi, che in questo momento sono molto competitivi e i cui principi sono in grado di impegnarsi in azioni militari per conquistare il potere a Roma, da cui Anco Marzio deve difendersi negli ultimi anni del suo regno. In questo periodo, non esistono ancora regola di successione dinastica e, il più delle volte, il potere regio viene conquistato con le armi e poi esercitato come un potere personale, in modo non molto dissimile dalla tirannide. Esiste, insomma, un “generale prevalere delle ragioni di forza” (PALLOTTINO 1993: 334).
È in questo clima che Lucio Tarquinio, poi conosciuto col nome di Tarquinio Prisco (616-578), conquista il potere regio a Roma, inaugurandovi un periodo di dominazione etrusca. Con Tarquinio la componente etrusca si impone su quelle sabina, albana e latina e Roma si apre all’influenza greca e orientale. Tarquinio non solo rende più bella e potente la città ma incrementa anche il proprio potere, assumendo alcune delle prerogative, che prima erano riservate, in tutto o in parte, al Senato, come l’elezione del re e la scelta dei comandanti militari. La classe aristocratica incassa il colpo con suo grande disappunto, perché non può accettare che il potere regio sia nella mani di uno straniero, e trama contro Tarquinio, fino a farlo cadere.
Tra i signori che hanno appoggiato Tarquinio nella conquista del potere merita di essere ricordato Celio Vibenna, non tanto perché questi si insedia sul monte Celio, al quale dà il nome, quanto perché al suo seguito c’è un certo Mastarna, il comandante della fanteria di non nobili origini che, sfruttando abilmente la situazione a lui favorevole che si viene a determinare dopo la scomparsa del Vibenna stesso e l’uccisione di Tarquinio, riuscirà a salire sul trono assumendo il nome gentilizio (binomiale) di Servio Tullio (578-34), che, secondo alcuni, tradisce le sue umili origini, secondo altri, costituisce l’espressione del potere raggiunto dal populus. Sarà per le sue origini, o per il desiderio di guadagnarsi un ampio consenso di clan, oppure per contrastare l’eccessivo potere di alcuni capiclan, che ambiscono ad ottenere privilegi ereditari, fatto sta che Tullio si impegna in una radicale riforma sociale, che da molti è ritenuta necessaria ora che Roma controlla una popolazione numerosa e variegata.
La riforma tulliana si ispira probabilmente a quella del suo contemporaneo Solone, rispetto alla quale presenta molte affinità, anche se diverso sarà l’esito finale: dalla riforma di Solone origina una repubblica democratica, da quella di Tullio una repubblica aristocratica. Tullio divide dunque la società romana in venti distretti o tribù territoriali, quattro corrispondenti ai quartieri urbani e sedici alle campagne, e le famiglie in cinque classi, secondo il reddito: la prima comprende i cittadini più facoltosi, la quinta i meno abbienti, che sono anche i più numerosi. Ciascuna classe, poi, viene ripartita in centurie per un totale di 193. Tutti i membri maschili adulti di una tribù costituiscono il comizio tributo, mentre quelli di una centuria formano il comizio centuriato. La consultazione popolare da parte del re implica la votazione delle centurie, ciascuna della quali ha diritto ad un voto, e vale il principio che la maggioranza decide. Non si tratta però di un metodo democratico, come potrebbe sembrare a prima vista. Cominciano a votare, infatti, i comizi della prima classe e la consultazione ha termine nel momento in cui si è raggiunta la maggioranza. Spesso le ultime centurie, che sono anche le più numerose, risultano escluse dal voto. Questo sistema rimarrà in vigore sino alla fine della Repubblica. Ogni centuria è tenuta a fornire un determinato numero di soldati e un certo quantitativo di tasse, mentre, le è riconosciuto il diritto ad una corrispondente porzione di bottino in caso di vittoria, che essa provvederà a ripartire tra le famiglie al proprio interno. Ogni soldato è tenuto ad armarsi a proprie spese e secondo le proprie possibilità, perciò solo i cittadini più facoltosi possono disporre di armature pesanti. I più benestanti possono permettersi anche un cavallo: sono i cavalieri, che col tempo andranno a formare una vera e propria classe sociale, l’ordine equestre, e contenderanno ai patrizi le funzioni pubbliche di maggior prestigio. La prima classe, detta anche classis, è composta dagli uomini che formano l’esercito oplitico, ossia la fanteria pesante o legione (la cavalleria, al momento, è seconda rispetto alla fanteria, anche perché poco efficiente a causa dell’inesistenza della staffa). La prima classe è composta da un centinaio di famiglie patrizie (gentes) e dai loro clienti, ossia dal populus propriamente detto. Il magister populi, o dittatore, è di fatto la maggiore autorità della città. Le altre classi, fino alla quinta, dette anche infra classem, costituiscono le truppe ausiliarie, armate in modo leggero. Sono i plebei.
“In una repubblica di guerrieri, gli uomini che sono al di fuori dell’esercito sono anche quelli che non hanno potere politico. I plebei devono essere stati uomini che erano al di fuori delle clientele: piccoli proprietari terrieri troppo poveri per entrare nella classis, artigiani, poveri commercianti” (MOMIGLIANO 1989: 156). I nullatenenti, che formano una sorta di sesta classe, sono esclusi dalla leva militare e non partecipano alla distribuzione dell’eventuale bottino di guerra. In pratica, l’esercito, che è strutturato secondo la tattica oplitica, da privato che era, ora diventa pubblico e “opera per conto non più di un ricco signore o di un clan, ma della comunità cittadina” (CAMPOREALE 2000: 83).
Tullio si distingue anche per la sua politica a favore delle classi più deboli, cui concede delle terre, e per aver dotato la città di una nuova cinta muraria, molto più estesa della precedente, che adesso circonda ben sette colli. Roma comincia ad essere, anche nell’aspetto, una città importante, ed è in grado di competere con qualunque altra città dell’epoca.
Se Roma è forte, gli Etruschi lo sono ancora di più, tanto da poter tentare l’impresa di soggiogare l’intera penisola italica (550-423), espandendosi verso la pianura Padana e la Campania, oltre che verso le coste tirreniche, dove dovranno scontrarsi con Galli, Osci e Siracusani. A Roma i Tarquinii riescono a riconquistare il potere con Lucio Tarquinio, figlio o nipote del Prisco, al quale Servio Tullio ha dato in isposa una propria figlia. Appellandosi al suo diritto ereditario, Lucio mette in atto un colpo di Stato, nel corso del quale Servio Tullio rimane ucciso, e verrà ricordato come Tarquinio il Superbo (530-10), a causa del suo comportamento autoritario. Il suo regno si apre infatti con l’eliminazione cruenta dei fautori di Servio e si caratterizza per la tendenza di rafforzare il proprio potere e renderlo assoluto ed ereditario. Il Senato, però, gli oppone resistenza e, servendosi di promesse, cerca di guadagnare l’appoggio del popolo, che così comincia ad avere un peso sociale e a partecipare del potere politico.
La Roma dei Tarquinii è una città ricca e civilizzata, che ha adottato molte delle caratteristiche organizzativo-politiche della polis greca, pur senza giungere ai livelli di democraticità di Atene, mentre dagli etruschi ha importato il calendario, l’alfabeto, la moda e l’urbanistica. La società è di tipo aristocratico, centrata sulla figura del cittadino benestante, che, oltre ad essere in grado di dotarsi di armi pesanti ed essere proprietario di campi, è circondato da un gruppo di clienti, di cittadini di rango inferiore che hanno in lui il punto di riferimento. Alla fine, sotto i ripetuti attacchi degli aristocratici appoggiati dal popolo, la monarchia viene abbattuta (510 ca.) e inutilmente Tarquinio tenterà di riconquistare il potere, nonostante l’aiuto offertogli dal re di Chiusi Porsenna, che mira a impossessarsi di Roma. Alla fine, l’esercito etrusco viene sconfitto ad Ariccia (504) e Roma può consolidare il suo assetto repubblicano.

7.4.2. La monarchia di Roma
“Per quanto possiamo giudicare, la maggior parte dei re di Roma erano capibanda, non necessariamente di estrazione romana, e neanche latina, che persuasero o costrinsero l’aristocrazia locale ad accettare la loro supremazia” (MOMIGLIANO 1989: 35). La monarchia non è ereditaria, i re sono spesso stranieri e hanno bisogno dei notabili locali, cui riconoscono un certo potere, pur esercitando il diritto di scegliere i propri consiglieri.

Alla fine del VI secolo, la società romana si articola nel modo seguente: al vertice ci sono i patrizi, vale a dire i ricchi proprietari terrieri, seguiti da uno stuolo di Clienti, vale a dire di famiglie devote e fedeli, dotate di un censo adeguato all’acquisto di un armatura, che offrono il proprio sostegno al signore in cambio della sua protezione e della concessioni di privilegi. Possiamo chiamarli clan di alto rango, oppure classi dominanti, oppure consorterie politico-militari, oppure bande, o in qualsiasi altro modo preferiamo. Di fatto, essi costituiscono uno Stato nello Stato e godono di una relativa sovranità. Ci sono poi famiglie artigiane, commercianti e contadine, che dispongono di un certo censo, ma non fanno parte di nessuna consorteria e godono di minori diritti. Dopo l’affermazione della fanteria, essi acquistano dignità di populus ed elevano il proprio stato sociale. Al gradino più basso c’è la plebe, ossia coloro che dispongono di censo insufficiente ad armarsi ed entrare nella fanteria. Sono questi i protagonisti di una Repubblica, che nasce in risposta all’affermazione della tattica oplitica e alla corrispondente ascesa della plebe (MAZZARINO 1992: 195).

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