sabato 5 settembre 2009

6. Minoici, Micenei e Greci

6.1. La civiltà minoica
Intorno a 5 Kyr fa, mentre la Grecia è abitata da numerose popolazioni tribali, che Erodoto chiama Pelasgi, nell’isola di Creta comincia ad affermarsi la cosiddetta civiltà minoica, che raggiungerà il suo massimo splendore fra il 4000 e il 3400 BP. Il termine minoico trae la sua origine da quello che alcuni ritengono essere stato il primo grande re cretese, Minosse, che avrebbe avuto il merito di aver portato all’unità politica i vari reami che erano presenti nell’isola.
La civiltà minoica del II millennio si caratterizza per la presenza di numerose città-stato (Omero parla di “Creta dalle cento città”), fra cui ricordiamo Cnosso, Gortina, Mallo, Festo, Litto e Cidonia, che sono rette da regimi monarchici e dove i sontuosi palazzi delle poche famiglie nobili e del re fanno contrasto con le abitazioni fitte e minute della gente comune. La città si identifica coi suoi palazzi, ossia con la classe aristocratica, mentre il popolo è costretto a vivere di duro lavoro e ai limiti della sussistenza, a beneficio dei ricchi signori. È la classica società duale.
I Cretesi sono gente pacifica, come induce a credere il fatto che le loro città non sono fortificate, ed operosa, che sa distinguersi nella lavorazione dei metalli, delle pietre preziose, dei tessuti e della ceramica, ma soprattutto esperta nella navigazione e nel commercio. Nei loro viaggi vengono a contatto con gli abitanti di molte isole dell’Egeo e della stessa Grecia, ai quali esportano, insieme alle mercanzie, la propria cultura. Anche se il benessere dell’isola proviene principalmente dal commercio, i Cretesi non conoscono il denaro. Conoscono invece la scrittura, che è “confinata nella dimora del re; destinata a compiti amministrativi e manipolata da funzionari o impiegati che sorvegliano le entrate e le uscite di beni e ricchezze” (DETIENNE 1997: XI).
A partire dall’inizio del secondo millennio, alcune popolazioni indoeuropee penetrano nel territorio greco, ad ondate successive e più o meno pacificamente, integrandosi o sostituendosi ai Pelasgi. Sono gli Achei, gli Ioni, gli Eoli e i Dori. I primi ad arrivare sono gli Achei, una popolazione celtica originaria dall’Europa centrale, che sciamano nel Peloponneso. Seguono gli Ioni, che sono divisi in quattro tribù (fylai), si stabiliscono nel nord del Peloponneso e nell’Attica, da dove si spargono nelle isole dell’Egeo e nelle coste dell’Asia Minore, fondandovi dodici città, tra cui Efeso e Mileto. Gli Eoli si insediano in Tessaglia, in Beozia e nel Peloponneso, per poi raggiungere la costa dell’Asia Minore (dove fondano una trentina di città) e l’isola di Lesbo. I Dori, divisi in tre tribù, costituiscono l’ultima popolazione indoeuropea a penetrare in Grecia. Essi convivono a lungo con gli Achei e, forse, alla fine ne distruggono la civiltà.

6.2. La civiltà micenea
Secondo alcuni studiosi, nel XV secolo Creta è conquistata dagli Achei, ma il fatto non è certo. Secondo un’altra ipotesi, che forse è più attendibile, la civiltà minoica crolla non a causa di nemici esterni, bensì ad opera dell’insurrezione armata delle classi più povere contro i prepotenti aristocratici, che vengono abbattuti insieme ai loro palazzi o costretti a fuggire. In ogni caso, il crollo dell’ultimo dei grandi palazzi, quello di Cnosso (1375), segna la fine della civiltà palaziale e l’ascesa di un’altra civiltà, quella micenea, che si è andata sviluppando in terra greca ad opera degli Achei, che hanno assimilato la cultura minoica e, integrandola con la propria, hanno danno vita alla civiltà micenea (1600-1150), chiamata così dalla città di Micene.
Non dobbiamo pensare alla civiltà micenea come a un grande regno o ad un impero, ma piuttosto come a tanti piccoli regni indipendenti, dove vige un sistema sociale di tipo piramidale-monarchico, con a capo un re detto wanax, investito di potere assoluto, il quale risiede in un sontuoso palazzo fortificato, che è un vero e proprio centro di potere e di cultura. Il re è innanzitutto un capo militare, ma svolge anche funzioni di sacerdote e di magistrato supremo e, dato che non esiste una legge scritta, è lui la legge. La seconda autorità del regno, dopo il re, è il lavaghetas. Seguono le famiglie aristocratiche, dalle quali proviene la classe elitaria dei guerrieri (equetai) e degli alti funzionari (telestai). A grande distanza, si colloca la massa dei lavoratori (contadini, artigiani, ecc.) che, privi di diritti, vivono, per lo più, in stato di indigenza. L’ultimo gradino della scala sociale è occupato dagli schiavi. Per dare una risposta alla domanda di beni che viene dal Palazzo, i mercanti micenei percorrono in lungo e in largo il Mediterraneo, creando qua e là degli insediamenti costieri, che ancora non hanno dignità di colonie. Essi cercano innanzitutto ossidiana, allume, metalli pregiati e altre materie prime.
Nel XII secolo la potenza micenea crolla, forse per mano dei Dori, che si insediano in Argolide, Laconia e Messenia. L’invasione dorica è favorita dai problemi sociali interni che affliggono molte città micenee, che sono insorti con la guerra di Troia e aggravati dopo di essa, quando i signori, lottando fra loro nel tentativo non riuscito di conquistare l’egemonia, alla fine si indeboliscono e vengono sopraffatti dalle popolazioni in rivolta. Quale che ne sia la causa, dopo il crollo della civiltà micenea, molte famiglie aristocratiche sopravvissute abbandonano la loro terra in cerca di nuovi luoghi dove stabilirsi. Scomparse le famiglie regnanti, la popolazione rimane rada e frammentata in piccoli villaggi, le lotte per il potere si arrestano ed anche la cultura conosce un sensibile declino.

6.3. Il medioevo ellenico
Tramontata la monarchia micenea, i Greci possono godere di un lungo periodo di pace, ma non di prosperità. È un periodo decisamente oscuro, e perciò chiamato Medioevo ellenico, che segna il passaggio dalla monarchia palaziale ad un sistema di signorie locali centrate sulla figura del basileus, che si protrarrà fino al IX secolo. È con l’intento di legittimare questa realtà sociale che Omero la fa originare dalla sfera divina: Achille discende da Oceano e Teti, Ulisse da Ermes. È come dire che si tratta di personaggi di sangue blu. In quanto discendente divino, ogni basileus è anzitutto sacerdote e dispensatore di giustizia (dike) e la sua parola è sacra, ma, in quanto basileus, è anche capo dell’esercito. Il suo potere è comunque limitato non solo dagli altri notabili e dall’assemblea degli «anziani», cioè dai capiclan più ragguardevoli, di cui ci parla Omero nel secondo libro dell’Iliade (70ss), ma, perfino, dalle persone comuni. Questa realtà sociale si intravede chiaramente nella ribellione ad Agamennone (definito il massimo dei re) sia da parte dell’aristocratico Achille sia da parte del soldato semplice Tersite.
Nonostante questi segni di crisi, nella società omerica il potere appare ancora saldamente nelle mani dei basilees e risulta ancora inimmaginabile un governo di molti: la massa dei soldati, che nell’Iliade rimane come un’ombra sullo sfondo, prefigura appena quella forza sociale che nel V secolo darà origine alla democrazia. La società omerica non conosce la scrittura, né il denaro, né il commercio e pratica un’economia essenzialmente rurale, integrata con azioni di razzia. Essa comprende tre classi sociali: i nobili signori, che sono anche i ricchi possidenti e i detentori del potere; coloro che esercitano un’arte (demiurghi o artigiani, medici, indovini, costruttori, cantori, ecc.); i teti, ossia coloro che, non avendo né terre, né mestiere, vivono alle dipendenze altrui, come salariati, privi di sicurezza e di diritti, sebbene in teoria liberi.
In questo periodo nascono Atene e Sparta, le due poleis che impronteranno la storia della Grecia nei secoli avvenire. La calata dei dori risparmia l’Attica e qui trovano rifugio molti clan (eoli e ioni), che sono messi in fuga dall’arrivo dei dori. Nel X secolo Atene viene messa a battesimo dall’unione di alcuni villaggi, che decidono di confederarsi sotto la guida di un re (sinecismo). Lo stesso faranno gli altri villaggi: è l’unico modo per non essere sopraffatti. Così, nel corso del IX secolo, gli innumerevoli clan ellenici sono spinti dalle circostanze a unirsi sotto un capo comune e a costituire hiedo. In alcuni casi, il processo di sinecismo è ostacolato dalla resistenza di molti capi clan, che, non intendendo rinunciare alla propria sovranità, aprono uno stato di lotta per il potere, che si può concludere in tanti modi diversi: per esempio, con un accordo pacifico, o con una vittoria militare da parte di un capo clan sugli altri, oppure con l’allontanamento volontario o coatto di uno o più clan. Questi clan che, per un motivo o per un altro, lasciano la loro terra, si mettono alla disperata ricerca di nuovi spazi, ma l’impresa non dev’essere delle più semplici, almeno nella stessa regione, dove la competizione è aspra. Essi perciò si allontanano sempre più, seguendo le rotte dei mercanti o mettendosi al loro seguito.
Si gettano così le basi del fenomeno di colonizzazione, che inizia nel IX secolo, insieme al processo che conduce alla fondazione delle città, per esplodere nel secolo seguente. La causa è comune ed è da ricercare nell’incremento demografico che si registra in questo periodo nella regione egea e che si accompagna ad un incremento dei bisogni, alla fame di terre e di risorse e alla crescente competizione fra i clan, che tendono ad unirsi sotto un capo comune, allo scopo di accrescere la propria forza, che ora è necessaria per difendere la propria terra, ma anche per conquistarne di nuova. In questo clima, se alcuni capi clan assumono dignità regale, altri sono costretti a sottomettersi o a cercare fortuna altrove. Interi clan allora si muovono alla ricerca di territori disabitati, o abitati da popolazioni rade e poco organizzate, che possono essere facilmente allontanate o annientate. Generalmente, la fondazione delle colonie (apoikiai, letteralmente «lontano da casa») non dipende “da una precisa volontà politica, espansionistica delle madrepatrie, ma da esigenze concrete varie, e il più delle volte spontaneamente” (GABBA 1995: 45).
I primi effetti dell’incremento demografico si manifestano nell’Eubea, dove, oltre alla fondazione di città (Eretria, Calcide, Caristo), si registrano le prime migrazioni di clan alla ricerca di nuovi spazi da occupare. La via più sicura è il mare, lungo le rotte già tracciate dai mercanti, che da tempo si muovono alla ricerca di materie prime e scambiano merci con popolazioni lontane. A sud non si può andare, perché è già densamente popolato da genti evolute e ben organizzate (Siria, Egitto): non resta che dirigersi a est, verso il Mediterraneo e a ovest, verso il mar Nero.

6.3.1 Il difficile compito dei colonizzatori
Nulla sappiamo di questi primi gruppi, che lasciavano la propria terra: poteva trattarsi di un manipolo di soli uomini, che andava in avanscoperta, oppure di un intero clan o di più clan, che partivano per non più tornare. Non sappiamo nemmeno con quali criteri essi sceglievano la terra su cui insediarsi e quale tipo di rapporto stabilivano con le popolazioni indigene. Possiamo presumere che la scelta della terra dovesse avvenire sulla base della sua fertilità, vicinanza alla costa e difendibilità, ma soprattutto della consistenza numerica e della forza delle popolazioni locali. Sotto questo aspetto, dovevano risultare preziose le informazioni dei mercanti. In ogni caso, il compito era gravato da numerose incognite e difficoltà di vario genere. Periò si rendeva necessaria una salda organizzazione, che si affidava all’autorità di un capo spedizione, chiamato ecista.
Una volta giunti sul posto, per questi avventurosi coloni si apriva un capitolo di storia dagli esiti incerti e imprevedibili. Potevanno essere attaccati e massacrati dalla popolazione indigena, oppure potevano essere loro a riservare lo stesso trattamento ai locali, o più semplicemente a indurli ad allontanarsi. In altre circostanze poteva stabilirsi fra le due popolazioni un rapporto pacifico e di mutuo vantaggio, in cui i coloni ricevevano terra e risorse, gli indigeni la superiore cultura dei nuovi arrivati, e tutto ciò poteva esitare in una quanto meno parziale integrazione. In caso di successo, l’ecista provvedeva a dividere la terra occupata alle varie famiglie, secondo un criterio uguaglianza, forse in base a sorteggio, e guidava le operazioni di urbanizzazione, secondo il modello della madrepatria.
Nascono così le colonie greche, lungo le coste del Mediterrano e del mar Nero, come risposta al bisogno di nuovi spazi e nuove risorse. Lo stesso obiettivo può essere raggiunto senza allontanarsi dal proprio ambiente, com’è il caso di Sparta, che, dopo essere stata fondata attraverso il consueto processo del sinecismo (IX secolo), subito si dà un assetto militarista e inizia ad espandersi localmente, finendo per occupare prima la Laconia e poi la Messenia. Nel corso della guerra contro la Messenia, che si rivela aspra e lunga (735-668), gli spartani si dividono in una maggioranza, che è favorevole a insistere nella politica espansionistica, e una minoranza filo-messena, che è contraria ed è costretta a cercare fortuna altrove. Ebbene, sono costoro che andranno a fondare la colonia di Taranto (708), certo non in modo pacifico. Insomma, colonialismo ed espansionismo locale costituiscono due aspetti dello stesso fenomeno: bisogno di difendere terre, o di conquistarle.

6.3.2. Guerra come lavoro
Perché l’uomo lavora? Le ragioni possono essere tante, ma certamente una delle più importanti è quella di guadagnarsi di che vivere e, possibilmente, di acquistare beni immobili. Ebbene, quando l’uomo viveva in clan e tribù, il lavoro salariato non esisteva: nessuno andava a lavorare sotto padrone e nessuno dirigeva un’azienda produttiva. Ogni clan era sovrano e decideva liberamente come procurarsi il necessario per la sussistenza o un qualche surplus.
Fino alla scoperta dell’agricoltura, i singoli clan non hanno una residenza fissa e si muovono alla ricerca di acqua e cibo secondo necessità. Dopo la scoperta dell’agricoltura i clan si dividono in due gruppi: gli agricoltori-stanziali, che sono legati alla terra, i pastori-nomadi, che sono legati alla necessità di trovare acqua e pascoli per il loro gregge. Questi ultimi vivono alla giornata e non portano con sé oggetti ingombranti, né scorte, ma solo l’occorrente per piantare una tenda nel luogo dove decidono di accamparsi. Il più importante ostacolo per una comunità in cammino è quello di imbattersi in un’altra comunità che miri ad insediarsi nello stesso territorio.
Quando due comunità si trovano a vivere per un certo periodo in stretta vicinanza, può capitare che membri di una comunità attuino azioni di rapina o razzia a danno di membri dell’altra comunità. In questi casi, i razziatori possono aspettarsi azioni di ritorsione, ma poiché quando le cose si mettono male una comunità può decidere di allontanarsi, difficilmente si giunge ad uno stato di guerra vera e propria.
Diversa è la condizione delle comunità agricole, le quali, non potendo allontanarsi, si trovano costrette a difendere le proprie vite e le proprie colture restando sul posto. È, pertanto, naturale che, all’interno di una tribù di agricoltori, qualche clan si specializzi in senso militare e venga accettato dagli altri clan. Il clan guerriero si impegna a difendere il territorio della tribù in cambio di un piccolo tributo imposto alle famiglie contadine.
È così che si determinano le condizioni per l’affermazione della guerra. I clan guerrieri, infatti, non si limitano ad azioni di difesa ma, all’occorrenza, possono decidere di attaccare altri clan per appropriarsi dei loro beni e delle loro terre. Inizialmente, si pratica solo una guerra di razzia, tesa a procurarsi beni di cui si sia carenti: si toglie agli altri ciò che serve per la propria sopravvivenza. Insomma, la guerra diventa una sorta di lavoro. Ha ragione dunque Marx quando nota che la guerra è “uno dei lavori più antichi […], sia per la difesa della proprietà, sia per la sua acquisizione” (1970: II, 117).
Col passare del tempo, la guerra si afferma come “il fattore di base della crescita economica” (FINLEY 1998: 116) e finisce anche per divenire uno strumento di potere politico. “Nell’antichità, la conquista comportava regolarmente la presa di possesso del territorio a fini di sfruttamento, nonché l’imposizione di gravami fiscali o militari sulle comunità assoggettate” (FINLEY 1998: 131).
Ora, possiamo chiederci: perché un uomo accetta di impugnare le armi e mettere in pericolo la propria vita? Certamente perché, ponendo vantaggi e svantaggi sui piatti di una bilancia, i primi superano i secondi. Il guerriero semplice può essere attratto dall’opportunità di avere di che mangiare e di partecipare alla spartizione di bottini, schiavi e terreni confiscati al nemico, mentre il generale può essere mosso dalla prospettiva di una carriera politica.

6.4. Il Periodo arcaico
Il Medioevo è seguito dal cosiddetto Periodo Arcaico, che si estende dall’VIII al VI secolo e rappresenta un periodo cruciale nella storia della civiltà greca, almeno per quattro ragioni: la diffusione di santuari e di feste panelleniche, l’affermazione di una lingua comune e il fenomeno della colonizzazione, che stanno alla base dell’unità culturale dei Greci.
Nonostante il tramonto della monarchia e la crisi del basileato, la società rimane di tipo duale: le poche famiglie aristocratiche si dividono le risorse, mentre le masse lavorano sodo nei propri piccoli poderi e vivono in condizioni di sussistenza. Non si tratta però di società feudali, dal momento che non vi è una classe che deve rendere servigi all’aristocrazia in cambio di terra, bensì di centri agricoli, inegualmente divisi fra tanti contadini liberi. A causa dei debiti, molti contadini si vedono costretti a dare in garanzia prima la propria terra, poi i propri familiari e infine la propria persona, rischiando di ridursi in schiavitù per insolvenza.
Detenendo anche il potere giuridico, le classi possidenti possono agevolmente calpestare i legittimi diritti di quelle più deboli, e così divampano le tensioni sociali, che spingono molti clan ad abbandonare le loro terre e ad imbarcarsi sulle navi dei mercanti e ad ingrossare i loro insediamenti: “cercano ricche pianure da strappare agli indigeni che riducono in condizione di servi o di tributari. L’insediamento avviene dunque con la forza, in un ambiente naturalmente ostile” (MOSCATI 1987: 13). Si tratta dunque di piccoli eserciti, capaci di piccole azioni di conquista, come può essere quella di un territorio tanto esteso da ospitare una città. “È ovvio –sostiene Momigliano– che la guerra e la colonizzazione sono nozioni strettamente collegate che servono a spiegarsi a vicenda” (1987: 61).

6.4.1. I soggetti della politica: polis e ghenos
Intanto, in molte località della Grecia le tensioni sociali continuano e divengono particolarmente acute ed estese tra il VII e il VI secolo, epoca in cui si costituiscono nuove forme di società urbane, che poggiano su due struttute portanti: la città-stato o polis, che è un vero e proprio fulcro del potere economico e politico, e la stirpe o clan o ghenos, che costituisce la cellula sociale fondamentale. L’individuo non ha valore per se stesso, ma solo in quanto membro di un ghenos, di cui fa parte per filiazione e che fa da intermediario fra lui e la polis. Dal momento che non si concepisce il valore dell’individuo in sé, non deve stupire il fatto che le norme del diritto non tengono conto dei fattori soggettivi – diremmo oggi psicologici – dell’atto criminoso, delle intenzioni del reo, delle sue motivazioni, delle eventuali attenuanti, così che si tende ad attribuire la stessa responsabilità e, quindi, la stessa pena a chi ha commesso un delitto premeditato e a chi lo ha commesso in modo involontario. Se un membro di un ghenos subisce un danno da parte di un estraneo, è l’intero ghenos che, in mancanza di una legislazione scritta, si fa giustizia da sé, e lo fa ricorrendo alla faida.

6.4.2. Nascita del diritto
In pratica, la giustizia è amministrata secondo una logica di forza e, di solito, sono i ghene più potenti a prevalere su quelli più deboli. Il desiderio di porre fine alle tensioni sociali è tale da indurre i ghene a ricorrere ad un arbitro, che generalmente è un aristocratico, per lo più prescelto al di fuori della cerchia cittadina, a garanzia della sua imparzialità, cui viene conferito l’incarico di stabilire delle regole, ossia di legiferare. Tra i primi legislatori a noi noti possiamo ricordare Taleta a Creta e Zaleuco a Locri, nella prima metà del VII secolo, Caronda a Catania e Dracone ad Atene, nell’ultimo quarto del VII secolo. Le leggi da loro promulgate vengono messe per iscritto, affinché chiunque abbia facoltà di consultarle, anche se, in realtà, possono farlo solo coloro che sanno leggere, ossia davvero pochi. La Grecia arcaica, infatti, mantiene una cultura quasi esclusivamente orale: gli stessi aedi, che cantano storie tramandate oralmente da una generazione all’altra, sono per lo più illetterati. Bisognerà aspettare il V secolo e la diffusione della sofistica prima che l’alfabetizzazione acquisti rilevanza sociale.

6.4.3. La tirannide
Nella polis c’è un luogo pubblico, detto agorà, dove si svolgono le assemblee popolari, quasi sempre per iniziativa di personaggi aristocratici. Inizialmente il popolo non vi ha diritto di parola e la sua presenza serve soltanto a recepire e approvare il volere dei nobili, ma questa situazione non si mantiene stabile, principalmente a causa delle divisioni all’interno della classe aristocratica, da cui trarrà origine quell’importante fenomeno sociale che va sotto il nome di tirannide.
Il tiranno è un nobile ambizioso che, dopo essersi messo alla testa degli insoddisfatti, attizza il disordine, rovescia il basilesus in carica e ne usurpa il potere. Tra i primi tiranni possiamo ricordare Cipselo di Corinto, Ortagora di Sicione, Policrate di Samo, Trasibulo di Mileto. Tutti hanno rovesciato un governo aristocratico e lo hanno sostituto con la propria signoria. Tratto comune ai tiranni è quello di stabilire relazioni con l’estero, potenziare la flotta e incrementare il commercio, costruire edifici pubblici, organizzare spettacoli e promuovere la cultura come mecenati ante litteram. Anche per ricambiare l’appoggio ottenuto dal popolo, molti tiranni finiscono per tutelare le legittime aspirazioni delle classi più deboli e realizzano una sorta di «democrazia anticipata» (BENGTSON 1989: 105). Il rovescio della medaglia consiste nel fatto che i tiranni tendono ad approfittare della propria posizione per fondare una dittatura personale o una dinastia. Per scongiurare un simile rischio, gli Ateniesi istituiranno quello che Meier chiama “l’unico strumento legale che sia mai stato inventato per arrestare per tempo l’ascesa di un usurpatore”: l’ostracismo.

6.4.4. Le colonie
Come dimostrano i rinvenimenti di ceramiche e altri materiali, i Greci frequentano i porti del Mediterraneo già in età micenea (XVI-XI sec. a.C.), allo scopo, probabilmente, di procurarsi materie prime o barattare merci con le popolazioni autoctone. I Greci arrivano con le loro navi, prendono, scambiano, caricano e ripartono, ma non si fermano, non ne hanno alcuna intenzione. Solo quando le condizioni nella loro patria si fanno particolarmente critiche, per una qualsivoglia ragione, qualcuno pensa di andarsene, almeno fintantoché non sarà possibile un loro ritorno, ma, talvolta, si trovano così bene che decidono di restare per sempre nel nuovo insediamento, che doveva essere solo provvisorio. Nascono così le colonie. La prima viene fondata nel sec. VIII a.C. nell’isola di Ischia ad opera dei Calcidesi. Gli stessi Calcidesi fondano colonie a Cuma, Napoli, Reggio, Catania e Zancle (Messina), i Corinti ne fondano a Selinunte e Siracusa, i Rodiensi a Gela e Agrigento, gli Achei dell’Acaia a Sibari, Metaponto e Crotone, gli Spartani a Taranto, i Focei ad Elea.
Dapprima modeste, col tempo queste colonie si ingrandiscono e diventano delle vere e proprie città, organizzate sulla falsariga delle poleis elleniche. Fra loro inizia ben presto una rivalità per la conquista dell’egemonia, che diventa talvolta guerra aperta. Così, attorno al 510 a.C., a seguito di uno scontro tra Sibari e Crotone, Sibari viene rasa al suolo. Negli anni centrali del sec. V a.C., su iniziativa degli Ateniesi, viene fondata sul sito dell’antica Sibari la colonia di Turi, che è osteggiata dai Tarantini. Per evitare di essere fagogitate dai nuovi arrivati, le popolazioni indigene tendono ad unirsi intorno ad un capo comune, fino ad assumere dignità di “popolo”: sono i Campani, gli Irpini, i Lucani, i Siculi, i Sicani.

6.4.4.1. Come nasce una colonia
Ogni colonia ha una storia a sé e la maggior parte di queste storie non ci sono note. Possiamo però supporre che, in molti casi, le colonie sono state fondate con la forza e la violenza.
Prendiamo il caso della colonia di Elea, di cui abbiamo qualche notizia. Dopo l’occupazione persiana dell’Asia Minore (546), molti coloni focei, a bordo di navi, abbandonarono le loro terre e raggiunsero la Corsica, da dove flagellavano le coste tirreniche con azioni di razzie, tanto da indurre etruschi e cartaginesi a coalizzarsi ed entrare in guerra contro di loro. Usciti sconfitti (540), i focei lasciarono la Corsica e ripararono sulla costa lucana, dove fondarono la colonia di Elea.

6.4.5. Dal mito alla ragione
Mentre questi eventi accadono, l’uomo greco va sviluppando una propria cultura e getta le basi per il superamento della logica magico-mitico-religiosa, che ha caratterizzato il Sapiens fino a quel momento, svolgendo un importante ruolo funzionale. La pioggia, il vento, le acque, il fuoco, il caldo, il freddo, le stagioni, le malattie, i parassiti, le piante e gli animali, la vita e la morte, erano tutti fenomeni e fattori alquanto misteriosi e potenzialmente dannosi, nei confronti dei quali il Sapiens si sentiva impotente. Tuoni, fulmini, terremoti, inondazioni, erano terrificanti per i primi uomini, i quali guardavano ad essi come a manifestazioni di esseri viventi, cui si rivolgevano con preghiere e doni per propiziarsene i favori. Alla domanda «Perché piove?», uno sciamano avrebbe potuto rispondere: «Perché tal dio ammassa le nubi»; mentre, alla domanda «Perché non piove?», la risposta sarebbe potuta essere: «Perché tal dio disperde le nubi». E perché il dio si comporta ora in un modo ora nell’altro? Lo sciamano avrebbe potuto replicare: «Per punire l’uomo, o per premiarlo». Insomma, magia, religione e mito servivano all’uomo per controllare dei fenomeni naturali, di cui non aveva una chiara conoscenza e che, pertanto, generavano in lui ansia e paura.
Il mito viene da lontano, da una tradizione antica, che si perde all’inizio del tempo e rappresenta una verità eterna e immutabile. Esso perciò non è oggetto di discussione o di critica e dev’essere accettato senza discutere, come qualcosa di sacro o un dogma di fede. Sotto questo aspetto, mito e religione si somigliano: entrambi richiedono un’adesione incondizionata e non lasciano spazio alcuno alla libera ragione dell’individuo. In teoria, a nessuno è concessa la facoltà di modificare un mito, e tanto meno un dogma di fede, in pratica si lascia uno spazio per l’interpretazione, che però viene riservata in esclusiva a pochi eletti, in particolare a sciamani, sacerdoti, profeti e santoni. Nessun mito, o dogma, avrebbe potuto resistere alla prova del tempo se non fosse stato messo in forma scritta e, quindi, in qualche modo tradotto in parole e interpretato. Ora, non dobbiamo dimenticare che nelle epoche antiche la scrittura costituiva un’arte tra le più difficili ed elitarie, alla portata solo di pochi membri appartenenti alle famiglie dominanti. Almeno nella sua veste letteraria, il mito e il dogma prendevano forma all’interno dei palazzi e dei templi, all’interno cioè dei massimi centri del potere, ed è dunque probabile che essi rispecchiassero il punto di vista dei potenti dell’epoca. Mito, religione e tradizione, opportunamente interpretati, costituivano, dunque, lo strumento di cui si serviva il potere istituzionalizzato per legittimare se stesso e svolgevano la funzione di avallare l’ordinamento sociale vigente.
Ancora ai tempi di Omero, la cultura greca è prevalentemente di tipo magico-mitico-religioso e gli uomini si servono di racconti favolosi per spiegare tanto i fenomeni naturali quanto quelli sociali. Attraverso il mito, essi interpretano il mondo, danno risposte agli interrogativi esistenziali, fondano le origini gloriose di una polis o di un nobile casato, trasfigurano le realtà negative, come quelli della morte, della malattia e della sfortuna, orientano positivamente le proprie risposte emotive, si sentono rassicurati di fronte all’incerto e all’ignoto. Insomma, provvedono ad esorcizzare le proprie paure, a soddisfare il proprio bisogno di sicurezza e a far corrispondere i desideri con la realtà. Insieme alla magia e alla religione, il mito svolge, dunque, importanti funzioni sociali e psicologiche (KIRK 1993: 45-61), spiega fenomeni sociali e naturali, altrimenti incomprensibili, descrive le cause ultime del bene e del male, della vita e della morte, interpreta l’origine del cosmo, dà una risposta alla domanda di giustizia, rassicura la gente, legittima consuetudini e istituzioni vigenti, controlla, nel suo complesso, la realtà naturale e sociale.
Ebbene, nel corso del periodo arcaico, l’uomo greco comincia a diffidare dei racconti mitici e religiosi e della stessa tradizione, e dubita che essi siano una fonte di verità somma e indiscutibile, rifiuta la spiegazione mitica del cosmo e dell’uomo mondo e, sempre più, ricorre all’uso della ragione. Come dice Eraclito, “non si deve agire come figli dei propri genitori, ossia al modo che ci è stato tramandato” (fr. 74), ma vivere secondo ragione e liberarsi dall’idea che tutto ciò che è stato debba essere stato per necessità e che tutte le risposte date siano eterne e immodificabili. “Il vero lascito dei Greci è la ragione”, si dirà, ed è vero. Ciò non significa che i Greci riescono a liberarsi del tutto dai prodotti della pura immaginazione, ma solo che provano a farlo. E non è poco. È proprio in questo tentativo, infatti, che possiamo vedere uno dei più grandi apporti che la civiltà ellenica ha dato alla causa del progresso umano.
Un primo contributo al superamento del mito viene proprio da autori, come Omero ed Esiodo, che pure al mito fanno ampio ricorso. In particolare, la Teogonia di Esiodo, pur essendo un racconto mitologico, può essere visto come “un tentativo molto precoce di dare sistemazione unitaria a una congerie di materiali mitici, collocandoli all’interno di un quadro che, pur appartenendo a una fase ancora pre-scientifica, in virtù della sua universalità si pone già a mezza strada fra la variegata incoerenza degli antichi miti e l’approccio razionalistico del futuro” (Grant 1996: 238) . Ma coloro che scuotono con più energia l’ordine mitologico del cosmo sono certamente i primi filosofi, ossia Talete, Anassimandro e Anassimene, che vivono fra il VII e il VI sec. a Mileto, la città più importante della Ionia .
Questi filosofi, che chiamiamo naturalisti perché si occupano, appunto, del mondo fisico, giudicano le risposte mitiche e religiose come non razionali e, dunque, non credibili e perciò si impegnano a percorrere vie alternative, basate sull’esperienza. Partendo dal presupposto che tutto ciò che è naturale deve avere un principio, essi si chiedono: «Qual è il principio dal quale dipendono tutti i fenomeni naturali?». La risposta di Talete, «tutto comincia con l’acqua e finisce nell’acqua», farà sorridere l’uomo moderno, è vero, tuttavia, non si deve dimenticare che essa rappresenta il primo tentativo dell’uomo di dare una spiegazione, razionale e non mitologica, all’ordine del cosmo, la prima volta che l’uomo osa investigare autonomamente l’universo. Questo cambiamento di atteggiamento, questo voler passare dalla fantasia all’evidenza empirica, questa volontà di servirsi della ragione individuale per comprendere il mondo, tutto ciò segna la nascita del pensiero filosofico e scientifico e l’inizio di una nuova era.

6.4.6. Religioni misteriche nel mondo ellenico
Sono così chiamate alcune forme di culto, “non pienamente diffuse e istituzionalizzate, bensì individuali e praticate da gruppi ristretti” (FARIOLI 1998: 1) e in condizioni di segretezza. Ad esse tutti possono accedere, donne e schiavi compresi, ma solo attraverso un rito di iniziazione, che introduce il fedele in un cammino di salvezza, che si realizzerà dopo la morte, e che gli fa meritare, già in vita, i favori della divinità e l’allontanamento del male. Di norma viene richiesto un onere finanziario, che costituisce un limite per molti. Delle religioni misteriche fanno parte i misteri di Dioniso, di origine ellenica, i misteri di Iside e Osiride, di origine egizia, i misteri di Attis e Cibele, che provengono dall’Asia Minore, e i misteri orfici, che professano “la dottrina della trasmigrazione dell’anima, secondo la quale la parte immortale dell’uomo si incarna in numerosi corpi prima di aver portato a termine la propria purificazione” (FARIOLI 1998: 58). Dal momento che queste religioni sfuggono, almeno in parte, al controllo del potere politico, essere sono solitamente mal viste e talvolta costituiscono oggetto di repressione. Fanno eccezione i misteri eleusini, che sono considerati da Atene al pari della religione di Stato.

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