sabato 5 settembre 2009

16. Africa

Del continente africano gli euro-asiatici conoscono solamente la regione costiera mediterranea, che è popolata da egizi, fenici, greci e romani. Dell’Africa nera si hanno solo vaghe conoscenze, e così sarà fino al XVIII secolo. Ciò non vuol dire che essa sia priva di storia. La storia dell’Africa ricalca quella delle altre regioni del mondo, anzi, in un certo senso, è la storia più antica del mondo, perché Eva, la progenitrice del genere umano, è africana. Anche in Africa gli uomini hanno vissuto dapprima in famiglie, e poi in bande, in clan e in tribù di cacciatori-raccoglitori. Le prime forme di società complesse, primi dominî, le prime culture, compaiono nel I millennio a.C., e fanno da preludio a grandi imperi. La più antica cultura africana nota è quella nubiana, che fiorisce a sud dell’Egitto, nell’odierno Sudan, intorno al 1000 a.C., e dalla quale ha origine il “Regno di Kush”. Inizialmente la Nubia è sottoposta all’Egitto, cui versa un tributo annuale, ma, intorno all’VIII secolo, una dinastia nubiana regna in Egitto, fino all’occupazione assira (663).

15. Australia e Nuova Guinea

Furono occupate dall’uomo 40 Kyr fa, quando erano unite fra di loro e all’Eurasia.

14. Russi

Nell’area dell’attuale Russia, il passaggio dal Mesolitico al Neolitico avviene tra 8.000-4000 anni fa e comporta il passaggio da un’economia di caccia e raccolta ad un’economia di tipo agricolo-pastorale. La popolazione aumenta e le tribù vivono sempre più a stretto contatto fra loro, stabilendo rapporti non sempre pacifici. Talvolta intere popolazioni si muovono alla ricerca di nuovi spazi in cui insediarsi e, avanzando, fanno razzia di ogni cosa e seminano terrore e morte, fino a che la carica propulsiva che le ha spinte ad avanzare non si esaurisce spontaneamente o non trova un ostacolo insuperabile. Non sono infrequenti scontri armati veri e propri, che fanno da preludio alle prime guerre. I centri meglio organizzati provvedono a migliorare i propri armamenti e realizzano le prime opere di fortificazione.
Intorno a 3000 anni fa, la Russia è disseminata di numerosi villaggi permanenti e domini, più o meno fortificati, e da altrettanto numerose popolazioni nomadi, che si spostano da un luogo all’altro, pericolosamente e imprevedibilmente. I pericoli aumentano a mano a mano che si vanno diffondendo le armi in ferro e viene impiegato il cavallo in azioni militari. L’elevato livello di competizione spinge molte tribù ad unirsi intorno alla figura di un leader e a costituire cospicui corpi politici e militari, come i Cimmeri, gli Sciti e i Sarmati. A partire da 2700 anni fa, queste popolazioni imparano a combattere a cavallo e, duecento anni dopo, l’invenzione della staffa consente loro di usare le armi a mani libere, mentre si muovono al galoppo (BLAINEY 2000: 113). Sono diventati dei temibili cavalieri, capaci di compiere razzie e seminare terrore e morte anche nelle città.

13. Europa

La rivoluzione neolitica inizia in Europa tardivamente rispetto all’Africa e al vicino Oriente. I primi insediamenti agricoli compaiono a Creta, nella Grecia e nei Balcani meridionali, a partire da circa 8 Kyr fa. Si tratta di piccoli villaggi, che, col tempo, tendono ad ingrandirsi, fino a diventare dominî, all’inizio del IV millennio, quando compaiono le prime industrie metallurgiche. La comparsa delle città è tardiva, come anche l’invenzione della scrittura: entrambe risalgono all’età del ferro.

12. Americani

Quando gli europei sbarcheranno nelle Americhe, credendo di trovarsi nelle Indie, chiameranno gli abitanti del luogo Indiani, ma, se avessero saputo che avevano scoperto l’America, avrebbero chiamato certamente quegli uomini con un nome più appropriato, ossia Americani. La cosa strana è che, quando è apparso chiaro che il Continente scoperto era l’America, i suoi abitanti originari sono stati chiamati ancora Indiani, oppure Nativi, e mai Americani, come sarebbe stato doveroso. La loro storia, davvero straordonaria, comincia con un interrogativo: in che modo l’uomo, partendo dal suo luogo di origine, cioè l’Africa, può aver raggiunto il Continente Americano, che è completamente circondato dalle acque dei mari e degli oceani? Le vie possibili sono due: o attraverso lo stretto di Bering, che separa l’America dall’Asia, oppure attraverso l’arcipelago polinesiano, che separa l’Asia orientale dall’odierno Cile, ossia attraversando, di isola in isola, l’immenso oceano Pacifico. Entrambe le vie sono percorribili solamente con solide imbarcazioni e appaiono estremamente impegnative e pericolose: la prima a causa delle proibitive condizioni climatiche (siamo vicini al polo nord), la seconda a causa delle enormi distanze da coprire.
Gli studiosi oggi ipotizzano che, 30 Kyr fa, lo stretto di Bering fosse interamente ricoperto di ghiaccio e, di conseguenza, attraversabile a piedi da qualche banda di cacciatori. Si dovrebbe però spiegare con quali motivazioni e con quale equipaggiamento una banda di cacciatori avrebbe deciso di avventurarsi in quelle lande sconosciute e gelide, dove, peraltro, le risorse dovevano essere scarsissime. In teoria, comunque, con un po’ di fortuna, l’impresa è da ritenersi possibile per qualche piccolo gruppo isolato, anche se dobbiamo escludere un flusso migratorio in massa. Più agevole è invece spiegare l’attraversamento in tempi successivi, quando l’Eurasia è densamente abitata e la competizione fra le tribù si è fatta dura, condizioni che si realizzano nel Mesolitico, ossia circa 11 Kyr fa. In quel tempo gli uomini possono attraversare agevolmente con le loro barche lo stretto di Bering durante la stagione estiva, quando i ghiacci sono sciolti. Dovrà passare ancora qualche millennio prima che alcuni gruppi dispongano di conoscenze e mezzi idonei a rendere possibile il raggiungimento delle coste dell’odierno Cile attraverso il Pacifico.
Comunque si siano svolti i fatti, una cosa è certa: l’uomo è arrivato in America relativamente tardi e in piccoli gruppi. Inoltre, dal momento che le condizioni geofisiche non consentono un regolare flusso immigratorio, bisogna ammettere che quei pochi coraggiosi pionieri devono essere rimasti relativamente isolati e con un intero Continente a loro completa disposizione. In conseguenza del loro isolamento, questi primi “americani” arretrano alla cultura di banda. La loro condizione ricorda quella del Sapiens in Africa 50 Kyr prima, ma con un’importante differenza: il Sapiens aveva più predatori da cui guardarsi e più competitori. In America l’uomo non solo trova pochi nemici, ma vede dischiudersi dinanzi a sé la prospettiva allettante delle immense distese di terreno, ricche di acque, flora e fauna, e senza padroni, che si rivelano un’inesauribile fonte di cibo e consentono un’elevata natalità. Certo, anche la mortalità dev’essere particolarmente elevata, come si conviene a piccoli gruppi che vivono liberi nell’immensità di una natura incontaminata e selvaggia, ma nondimeno l’incremento demografico è inarrestabile e tale da consentire l’occupazione dell’intero continente americano nell’arco relativamente breve di poche migliaia di anni.
Cinque Kyr fa il Continente Americano è interamente abitato da bande costrette a competere. Rispetto alle popolazioni africane ed euroasiatiche, il ritardo appare davvero grande, ma il tipo di sviluppo è lo stesso: in conseguenza della competizione, le bande si trasformano in clan e i clan in tribù, le tribù si sedentarizzano e fondano i primi villaggi; alcuni villaggi si trasformano in domini e poi in città; infine le città vengono unificate sotto un unico regno o impero e si sviluppano le civiltà. Questo sviluppo è più rapido nell’America centro-meridionale, dove è favorito dalle condizioni climatiche, ma, in ogni caso, non riesce a colmare il grave ritardo accumulato rispetto all’Eurasia e al Nordafrica. Ancora nel 2000 a.C. l’agricoltura non è praticata.
Particolarmente degna di nota è la stabilità culturale del Nordamerica, dove per millenni le popolazioni vivono allo stato tribale e senza avvertire la necessità di unirsi sotto un capo comune. Evidentemente l’equilibrio fra natalità e mortalità e fra andamento demografico e disponibilità di risorse è tale da consentire loro un’esistenza eccezionalmente appagante e tale da non suscitare l’esigenza di migliorare la propria organizzazione, fino a fondare città e regni. Questa loro esistenza felice e pacifica sarà turbata solo dall’arrivo degli europei. Un po’ diversa è la situazione nel Mesoamerica e nel Sudamerica, dove, sia pure con ritardo, intorno al 4000 a.C., inizia ad essere praticata la coltivazione del mais e nascono i primi villaggi, che, col tempo, si organizzano e diventano dominî. Dagli scavi archeologici, risulta che la prima civiltà ad essersi affermata, nella regione andina, è quella olmeca (XIII sec. a.C.), seguita, intorno all’800 a.C., da quella Chavín e da altre, sulle quali le nostre conoscenze sono prossime allo zero.

11. Mongolia

La Mongolia occupa il tratto orientale di quel lungo corridoio stepposo che va dalla Manciuria all’Ungheria. È un luogo freddo e poco ospitale per gli uomini che vi abitano, i quali vivono di caccia e raccolta, almeno fino a 6 Kyr fa, quando iniziano a domesticare animali, che portano al pascolo. Sono pecore, capre, cammelli e buoi, ma soprattutto cavalli. Oltre ad essere il principale mezzo di trasporto, il cavallo costituisce un irrinunciabile aiuto per badare alle greggi e, intorno a 3 Kyr fa, finisce per rappresentare “il fondamento dell’economia della prateria” (MAN 2006: 37). Col passare del tempo, grazie all’invenzione della staffa, della sella, delle briglie e del morso, i mongoli acquisiscono una perfetta padronanza di questo animale, che sono in grado di cavalcare anche senza l’uso delle mani. Ben presto imparano ad usare l’arco per colpire prede e nemici a distanza, mentre sono seduti sul loro destriero che galoppa, e questa abilità basta a fare di loro dei formidabili cacciatori e guerrieri.
La guerra non richiede ai mongoli grandi investimenti, perché il loro armamento è lo stesso che essi usano nelle battute di caccia, il cavallo e l’arco, ma, a differenza della caccia, l’attività bellica richiede un maggior numero di uomini e una migliore organizzazione, che è difficile concretizzare per popolazioni abituate a vivere allo stato clanico e tribale. Insomma, i mongoli hanno un enorme potenziale bellico, ma non sono in grado di servirsene adeguatamente perché sono disuniti. Dovranno aspettare Gengis Khan per realizzare l’unità e compiere imprese memorabili.

10. Giappone

Il Giappone è montuoso e povero di risorse naturali, e quindi è adatto ad essere da popolazioni sparse e rade. I primi insediamenti umani, che hanno lasciato traccia, risalgono a 30 Kyr fa. Come nel resto del mondo, essi vivono in piccoli gruppi (bande e clan) dediti alla caccia, alla pesca e alla raccolta. La storia del Giappone si svolge all’ombra del gigante cinese, da cui è condizionata e rispetto alla quale si trova in condizione di inferiorità, così da poter dire che “dal punto di vista culturale [il Giappone] è sempre stato tributario della Cina” (ABDALLAH, SORGO 2001: 75).

9. Cinesi

L’homo è attestato in Cina fin dalle epoche più remote (milioni di anni), mentre il Sapiens vi ha fatto la sua prima comparsa circa 40 mila anni fa (Sabattini, Santangelo 2005: 27). A partire da 8 mila anni fa, nel fertile bacino attraversato dai due grandi fiumi (il Fiume Giallo e lo Yangtze), sono avvenuti importanti cambiamenti sociali, che hanno portato alla diffusione di villaggi stanziali, alla fondazione di città e alla costituzione di regni. Poco sappiamo di questo periodo, ma possiamo presumere che gli eventi storici non debbano essersi svolti in modo molto dissimile da quello descritto a proposito del Vicino Oriente antico. Anche i fiumi cinesi, come quelli mesopotamici, causano piene disastrose, con distruzioni e morti, e anche in Cina si avverte la necessità di cooperare al fine di produrre un’efficace azione di contenimento delle acque. Anche in Cina, circa 5000 anni fa, si assiste al passaggio da un sistema tribale a un sistema cittadino, sorgono regni, si affermano complessi apparati amministrativi, che ruotano intorno ad un potere politico centrale. Anche in Cina città e regni competono per l’egemonia, fino a quando qualcuno riesce a realizzarne l’unione e a costituire un impero. Anche in Cina si diffondono le opere letterarie e artistiche e si strutturano delle ideologie religiose. Anche in Cina la popolazione si stratifica a forma di piramide, al cui apice si staglia la figura del re o dell’imperatore, cui si attribuiscono origini divine.
La più antica cultura neolitica cinese è chiamata Yang-Shao e risale alla fine del III millennio, quando Yu il Grande fonda una dinastia, di nome Hsia (2200 – 1550 a.C.), della quale sono rimaste poche tracce.
La prima dinastia storicamente documentata è la Shang (1550-1027 a.C.), sotto la quale i cinesi inventano, a quanto pare in modo autonomo, la scrittura, probabilmente tra il 1500 e il 1300. I Shang conoscono l’uso della moneta, che può essere di diverso materiale (conchiglie, osso, rame) e di diversa forma (sciabole, campane, ecc.). La società Shang è di tipo centralizzato e duale e fa capo ad un re (wang), che è insieme il capo del clan dominante e il capo degli sciamani e rappresenta la suprema autorità religiosa, politica e militare. Egli costituisce il vertice di una nobiltà militare ed è coadiuvato da una classe sacerdotale istruita, cui è delegata la responsabilità dell’amministrazione e della divinazione. Il re è subordinato al dio supremo (Di o Shangdi) e a lui si rivolge in tutti i momenti importanti per la comunità, per ottenerne la benevolenza, e lo fa per mezzo di riti e sacrifici rivolti agli antenati del re, i quali fungono da intermediari fra gi uomini e la divinità. Il re esercita il potere sovrano perché ne ha ricevuto il mandato divino (tianming). Per governare il proprio regno, egli crea una gerarchia di vassalli e un sistema sociale di tipo feudale. Il potere dell’imperatore è ancora relativamente debole e, tuttavia, sufficiente a consentire un grado di civiltà tale da far sì che i cinesi tendano a guardare con sufficienza e disprezzo gli stranieri, che vengono considerati barbari.
I Shang vengono abbattuti dai loro vassalli Chou, che fondano una nuova dinastia (1027-222 a.C.), la cui storia è segnata da alterne vicende, in cui prevale ora il potere centrale ora quello dei vassalli, che, aspirando all’autonomia, cospirano contro l’impero e lo indeboliscono. In una prima fase, durata tre secoli, i Chou controllano agevolmente un’ottantina di vassalli, con la maggior parte dei quali sono imparentati. In questo periodo aumenta la divisione del lavoro e la stratificazione sociale, migliorano le tecniche agricole e la ricchezza prodotta è tale da rappresentare una succulenta attrattiva per le popolazioni nomadi del deserto e della steppa, che perpetrano frequenti razzie. Allo scopo di porre uno stop alle loro incursioni vengono iniziati i lavori per la costruzione di opere di difesa. Intorno al 700, inizia un periodo di debolezza dei Chou, che è caratterizzato dalla quadruplicazione del numero dei vassalli e dall’aumento della loro riottosità e litigiosità, che porta a due secoli di guerre incessanti. Si tratta essenzialmente di guerre fra nobili famiglie, che combattono su carri, la sola classe sociale esistente oltre a quella dei contadini, che non partecipano alla guerra. La terra è del re e i contadini la lavorano per lui, trattenendo per sé solo lo stretto necessario per la sussistenza. I contadini “appartengono alla terra che coltivano e vengono trasmessi insieme ad essa, senza che possano mai possederla” (AYMARD, AUBOYER 1955: 523). La terra viene trasmessa in eredità dal padre al figlio primogenito della moglie legittima. I signori hanno un lignaggio e un clan d’appartenenza, mentre i contadini vivono in un anonimato indifferenziato. Al vertice di questo sistema sociale c’è sempre il dio del cielo, padre di tutti gli dèi, che vive in un palazzo dell’Orsa Maggiore e, per mezzo di intermediati, controlla e governa ogni cosa. Al fondo della scala sociale si collocano gli schiavi, che sono in prevalenza prigionieri di guerra. Alcuni signori riescono a trasformare i propri Stati in ben organizzate strutture di potere, non più fondate sulla parentela.
Seguono due secoli di instabilità e insicurezza generali. È in questo periodo che predicano Confucio e Mencio (VI sec. a.C.). Confucio è un funzionario imperiale appartenente alla piccola nobiltà dello stato di Lu, che si impone come maestro itinerante e dispensa insegnamenti e consigli ai vari signori feudali, allo scopo di ridare prestigio al governo imperiale. Egli vuole restaurare il vecchio ordine sociale e ricondurre la Cina alla prosperità perduta e, a tal fine, sostiene la necessità di recuperare i valori del passato e della tradizione, che disegnano un modello rigidamente gerarchico della famiglia, della società e dello Stato . Confucio non è un religioso e non è interessato né a creare una dottrina religiosa o una chiesa, né all’aldilà: per lui lo scopo primario di ogni uomo è quello di vivere felicemente su questa terra. Alla fine, il confucianesimo si riduce ad una sorta di etica sociale poco strutturata, priva di dogmi ed essenzialmente basata sul rito, e quindi adatta a convivere con altre religioni. Il confucianesimo predica anche il rispetto delle autorità costituite e delle gerarchie sociali. Perciò esso si rivela funzionale al potere politico e viene elevato a religione di Stato.
Accanto al confucianesimo si sviluppano in Cina altre religioni, in grado di rispondere meglio alle esigenze di tipo spirituale delle popolazioni, come il Taoismo e lo stesso Buddhismo.

8. Indiani

Durante l’Età dei Metalli, l’India è disseminata di villaggi, dominî, città e i regni, che sorgono soprattutto nelle valli dei fiumi Indo e Gange.
La prima significativa forma di civiltà indiana è quella harappiana, che si sviluppa nella valle dell’Indo intorno al XXV sec. a.C., e la cui principale caratteristica è quella di non presentare il passaggio dal clan alla tribù. Così, anche le società urbane sono formate da un elevato numero di clan che convivono fianco a fianco e che riconoscono una figura di capo comune, non si sa se eletto o sorteggiato fra tutti i capiclan, il cui compito è sostanzialmente quello di amministrare il surplus e di curarne la redistribuzione, specie nei momenti di crisi. Il fatto che non sono stati ritrovati simboli di potere sta a significare che questo capo non è paragonabile ad un re sumero e tanto meno ad un faraone: deve trattarsi di poco più di un semplice amministratore, la cui carica è personale e non può essere trasmessa ai figli. L’assemblea del popolo partecipa al governo e il suo potere bilancia quello del sacerdote e del re. Non ci sono dunque dinastie, né palazzi. Si ignora anche la scrittura. La cellula sociale fondamentale è la famiglia, che “è posta sotto l’autorità del padrone di casa, che ha il diritto di punire i figli e decide dei loro matrimoni” (AYMARD, AUBOYER 1955: 500).
Questa civiltà si dissolve dopo mezzo millennio, per cause che rimangono oscure, e lascia una situazione di vuoto politico, dove, fra i pochi eventi degni di nota, è da ricordare la costituzione di piccole repubbliche e piccoli regni disuniti e fragili. Intorno a 3500 anni fa, gli Arii, delle tribù indoeuropee, possono avanzare nella penisola e imporsi sulle popolazioni autoctone, fondando una confederazione di regni. I vincitori, volendo conservare la loro purezza razziale, gettano le basi del sistema delle caste, che verrà teorizzato e legittimato dalla religione vedica, che è, per lo più, trasmessa oralmente. La civiltà vedica è in prevalenza agricola, mentre il commercio e l’artigianato è poco sviluppato. Le figure di maggiore spicco sono i sacerdoti e i guerrieri. La guerra è una primaria fonte di ricchezza, in quanto fornisce terre e schiavi.
Per molto tempo le popolazioni indiane rimangono relativamente isolate, grazie alla protezione offerta dalla catena dell’Himalaia. Questa condizione cessa con l’invasione del re persiano Ciro (530 a.C.), che riporta l’India nel contesto internazionale.
I principali avvenimenti della storia indiana si svolgono sul piano religioso. La più antica religione è l’induismo, che traspare nei Veda (1500-1300 a.C.), nei Brahamana (XI-VII sec.) e nelle Upanishad (dall’VIII-IV sec.). Seguono la predicazione del Buddha (560-480), fondatore del buddismo, e quella del Mahavira (560-468), fondatore del giainismo.

8.1. Religioni dell’India
Gli Indiani hanno una concezione ciclica della vita, che è concepita come sofferenza e il cui scopo è quello di superare il ciclo delle rinascite ed entrare in una nuova dimensione dell’esistenza, dove la sofferenza non esiste. Le principali religioni dell’India sono l’induismo e il buddismo.
L’Induismo è una religione non strutturata, priva di gerarchia e priva di dogmi, “al punto che un induista può abbracciare un’altra religione senza cessare di essere induista” (ABDALLAH, SORGO 2001: 54). Si distinguono tre fasi di sviluppo di questa religione: il periodo vedico, che è caratterizzato dalla scrittura dei Veda (1500-800 a.C.); il Bramanesimo (800-400 a.C.) e l’Induismo vero e proprio, con le sue diramazioni (Tantrismo, Sikhismo, Giainismo). I Veda (conoscenza, sapienza) sono raccolte di inni sacri da recitare o cantare durante i riti sotto la guida di un sacerdote, l’unico che ne conosce il significato profondo. La loro stesura inizia intorno al 1000 a.C., in un’epoca in cui avviene il passaggio da società di tipo tribale a società più vaste e strutturate, i regni. I Veda vengono composti all’interno del tempio e costituiscono il prodotto delle classi dominanti, che se ne servono anche per controllare una popolazione numerosa ed eterogenea. La religione vedica è interamente rituale e sociale, e ignora la dimensione soggettiva della fede. Il Bramanesimo non è solo una religione, ma anche e soprattutto uno stile vita, del tutto inseparabile dal contesto sociale, da cui origina il sistema delle caste, che suddivide la società in quattro principali categorie di persone: i bramini o sacerdoti, che occupano il gradino più alto, seguiti dai guerrieri, dai contadini e artigiani e, infine, dai servi, che sono considerati impuri. Esclusi dalle caste ci sono poi i cosiddetti «intoccabili», che occupano il livello infimo della gerarchia sociale.
Il Buddhismo origina dalla dottrina del Buddha e si può riassumere nelle seguenti quattro nobili verità: I) la vita è fatta di dolore; II) la causa del dolore è l’attaccamento alle cose materiali e alle passioni; III) liberarsi dal dolore è possibile; IV) per estinguere il dolore occorre seguire il nobile ottuplice sentiero: 1. retta opinione (comprendere che l’io è un’illusione); 2. retta risoluzione (rinunciare al mondo); 3. retto parlare (dire la verità); 4. retto agire (non uccidere, non rubare, non eccedere con sesso, non mentire, non fare uso di sostanze inebrianti); 5. retto modo di sostentarsi (procurarsi da vivere lavorando in modo da non gravare sugli altri); 6. retto sforzo (evitare i pensieri malvagi); 7. retta concentrazione (per esempio, praticando yoga); 8. retta meditazione (praticare i quattro gradi dell’estasi in modo da ascendere gradualmente verso il nirvana). In pratica il buddhismo consiste in una serie norme etiche per il buon vivere civile, come quelle di non danneggiare né se stessi, né gli altri, né gli animali, né le piante, né l’ambiente in generale.

7. Italici, Etruschi e Romani

7.1. Italici
Intorno al XX secolo, nella Penisola italica le popolazioni tendono a vivere in villaggi e chiefdom, mentre sono in aumento la densità demografica, gli scambi commerciali, anche a lunga distanza (grazie anche alla maggiore richiesta di beni che proviene dai capi villaggio), la produzione artigianale di manufatti metallici (grazie anche alla lavorazione del piombo, del rame e dell’argento), tessili (diffusione del telaio) e di altro genere (ceramica, ambra, pelli), oltre che agricola (grazie anche alla diffusione dell’uso dell’aratro a trazione animale). Nello stesso tempo si va diffondendo l’olivicoltura e l’allevamento di suini e bovini di piccola taglia per un impiego prevalentemente alimentare. Si va diffondendo anche la pratica del disboscamento allo scopo di recuperare nuovi spazi coltivabili. Ovviamente, la produzione dei generi alimentari aumenta e, con essa, anche la popolazione che, per il momento, tende a preferire gli accampamenti temporanei al centro delle zone di pascolo.
Solo alla fine del XVII secolo la densità demografica della penisola italica raggiunge un livello tale da costringere i numerosi gruppi di pastori, che vivono allo stato seminomade, o di contadini, che risiedono sparsi in piccoli villaggi, ad insediarsi stabilmente in un territorio, organizzarsi e competere, fino alla guerra. Si afferma così la cosiddetta civiltà della terramare nell’Italia del nord, dove le popolazioni vivono in villaggi di palafitte, praticano l’agricoltura e lavorano il bronzo. Fino a questo momento, “non ci sono in Italia testimonianze che facciano presupporre l’esistenza di raggruppamenti etnici di un qualche rilievo” (BERNARDI 2004: III, 72). Non ci sono, in altri termini, popolazioni che abbiano la consapevolezza di appartenere ad un particolare gruppo etnico: non ci sono etruschi, latini, sabini, sanniti, umbri, liguri, veneti, e via dicendo. C’è però una tendenza al passaggio dalla pastoria seminomade a quella transumante e alla sedentarizzazione, che spinge le varie popolazioni locali verso una maggiore fusione e organizzazione, al fine di poter quanto meno difendere i propri pascoli e i propri armenti da azioni di pirateria, che si fanno sempre più frequenti, specie nelle aree costiere.
Tra l’XI e il X secolo, in un’area compresa fra le valli del Po e il Lazio settentrionale, la scoperta del ferro inaugura una nuova civiltà, che verrà chiamata villanoviana da Villanova, un piccolo centro nei pressi di Bologna, dove è stata scoperta una necropoli. Le condizioni sono favorevoli per l’affermarsi di leader e condottieri, in grado di approntare sistemi di difesa, ma anche di guidare azioni di razzia a danno di popolazioni vicine. Il pericolo più grave è rappresentato dallo sconfinamento di popolazioni limitrofe o da una penetrazione in massa di tribù che, spesso a loro volta pressati da altri gruppi, vengono, sotto la guida di un capo, con l’intenzione di trovare uno spazio libero in cui insediarsi e disposti a tutto, pur di non ritornare indietro. In questi casi i clan indigeni rischiano di essere annientati, a meno che non siano in grado di rispondere con pari forza e affrontare una guerra. Talvolta, invece, gruppi diversi trovano il modo di integrarsi in modo pacifico.

7.2. Gli Etruschi
Qualcosa del genere si verifica con l’”arrivo” degli Etruschi nella penisola italica (IX secolo), un popolo ancora in buona parte misterioso. Erodoto dice che provengono dalla Lidia, altri dai Balcani, mentre, secondo Dionigi d’Alicarnasso, costituiscono una popolazione autoctona (TORELLI 2001: 28). Le tre versioni non sono necessariamente incompatibili. È possibile, infatti, che questi uomini, allontanatisi dalla loro patria, a seguito di una “tremenda carestia”, siano giunti nella penisola italica dopo un lungo peregrinare nella regione dei Balcani e si siano fermati in Etruria, perché solo lì hanno trovato gente poco organizzata, poco aggressiva e disposta a convivere pacificamente.
Compresa tra l’Arno e il Tevere, la regione che corrisponde all’odierna Toscana, è fertile, ricca di giacimenti di rame, argento, piombo e ferro, e adatta all’allevamento di bestiame, insomma un luogo ideale per i nuovi arrivati, in tutto 1-2 mila persone, che sono perfettamente in grado di sfruttare adeguatamente quelle risorse. Ma da soli, lo capiscono bene, non ce la farebbero mai. Sono troppo pochi e, anche se riuscissero ad imporsi sui clan locali, difficilmente sarebbero poi in grado di resistere agli attacchi che altre potenti popolazioni limitrofe potrebbero sferrare in ogni momento. Decidono allora di evitare l’uso della forza e tentano di guadagnarsi la cooperazione degli indigeni attraverso una politica di apertura. Questo inconsueto comportamento ha l’effetto di disorientare i locali, i quali si dividono e, un po’ alla volta, finiscono tutti per accettare la convivenza pacifica, che trovano vantaggiosa. Grazie ad essa, infatti, i nuovi arrivati, Lidi o Balcani che siano, possono integrarsi con i clan indigeni fino a costituire un popolo, gli Etruschi appunto, o Tirreni, come li chiamano i Greci.

7.2.1. Città-stato
Fino agli inizi dell’VIII secolo, non ci sono prove archeologiche dell’esistenza di un potere centrale. Dobbiamo dunque supporre che i singoli clan fossero sovrani. Dagli inizi dell’VIII sec., i villaggi etruschi crescono demograficamente e cominciano a trasformarsi in città-stato, simili alle poleis greche e alle monarchie democratiche degli ittiti e dei fenici, organizzate sotto la guida di un principe, chiamato lucumone, i cui poteri sono limitati da un Consiglio “democratico”, composto da tutti i capi-famiglia, detto Curia. “La grande ricchezza è nelle mani di pochi, gli aristoi, che conducono una vita basata sul lusso” (CAMPOREALE 2000: 81). Nello stesso tempo, le famiglie più facoltose tendono a stringere fra loro opportune alleanze matrimoniali, allo scopo di elevare il più possibile il proprio status, e cominciano a distinguersi dal resto della popolazione sia perché risiedono in abitazioni migliori, sia perché ostentano oggetti di lusso. Il gruppo familiare (o clientelare) tende a lasciare nell’ombra il valore della singola persona e si eleva fino al punto da costituire “un’élite ormai pienamente conscia del suo ruolo sociale e caratterizzata da un’evidente volontà di distinguersi dal resto della comunità” (GUIDI 1992: 457). Contemporaneamente si vanno diffondendo le botteghe degli artigiani e aumenta la produzione dei beni di prestigio. I signori devono avere un largo seguito di clienti e un notevole ascendente su buona parte della popolazione se possono già permettersi la costruzione di fortificazioni e una pratica funeraria differenziata per classi.

7.2.1.1. Come nasce una città-stato
Per comprendere come sia stata possibile la nascita della città-stato, dobbiamo partire dalla preesistente cultura di clan. Un clan è un insieme di famiglie apparentate, che si ritengono discendenti da un antenato comune e comprendono centinaia di persone, che riconoscono un’autorità simbolica ad un capo clan, che di norma è l’uomo più anziano. Un clan numeroso e saldamente unito sotto la guida di un capo intelligente e capace può mettere in campo una squadra di un centinaio di uomini armati, tale da incutere paura e rispetto a chicchessia. Questo clan non solo esercita il controllo su un certo territorio, ma anche su clan minori e su singole famiglie, che a lui si appoggiano a scopo difensivo, nei confronti di altri potenti clan, che potrebbero insidiare le loro vite e le loro risorse. In condizioni di benessere e di pace, i clan minori conservano una loro relativa sovranità, alla quale però devono rinunciare in caso di pericolo, quando è fondamentale unire le forze sotto un capo comune. In questi casi, un capo clan può estendere il suo comando a migliaia di persone e contare su un esercito di centinaia di uomini armati. Cessato il pericolo, tutto ritorna come prima. Un capo clan particolarmente abile e ambizioso può condurre i suoi uomini ad azioni di intimidazioni, estorsioni e razzie a danno di altri clan, comportandosi di fatto come un capo banda, che pratica azioni di razzia e si serve del terrore per indurre altri a sottomettersi e a concedere favori e parte dei propri beni.
In questo periodo il banditismo non ha connotazioni riprovevoli, ma costituisce un modo ordinario di procurarsi le risorse necessarie e assicurare una vita agiata alla propria gente. Quando c’è abbondanza e non ci sono pericoli, il capo banda se ne sta inoperoso e i singoli clan riacquistano la propria sovranità. Il generale incremento demografico, che si registra in Etruria agli inizi dell’VIII secolo, genera un incremento dell’aggressività fra i vari clan, tanto da indurli a rafforzarsi e portare in auge la figura del capo. Da questo momento, i clan minori devono cedere definitivamente la propria sovranità al clan più potente, che adesso ha maggiori chance per competere nella sempre più dura lotta per il controllo del territorio e delle risorse. Ora i capi clan sono figure stabili e possono fregiarsi dei simboli del potere, risiedere in una casa adeguata al rango e pretendere delle esequie fuori dall’ordinario. Il villaggio in cui sorge la loro abitazione si ingrandisce, si stratifica e si dota di fortificazioni, così da costituire il centro nevralgico del territorio controllato da quel clan. Tale è la situazione nell’Etruria agli inizi dell’VIII secolo, quando le lotte fra capi villaggio portano o al prevalere di uno sugli altri, e quindi alla costituzione di un villaggio alfa, che comincia ad assumere le sembianze di una vera e propria città, oppure all’unione (sinecismo) di diversi villaggi a scopo difensivo, pur conservando ciascuno la propria sovranità.
La prima città ad essere fondata è Veio. Poi sarà la volta di Fiesole, Volterra, Perugia, Chiusi, Todi, Orvieto, Tarquinia e altre città-stato indipendenti, che, seppure non si fanno guerra a vicenda, come le poleis greche, tuttavia non vogliono saperne di unificarsi, accontentandosi di un generico vincolo confederativo. Durante il VII secolo, gli etruschi estendono il loro controllo sul Tirreno, dove praticano la pirateria e la guerra da corsa, ovvero “il commercio tutelato da scorte militari” (MOSCATI 1987: 161). Intorno alla metà del VII secolo, giunge a Tarquinia, con ampio seguito, Demarato, un facoltoso commerciante corinzio, che sposa una ricca donna locale, da cui ha due figli, uno dei quali, di nome Lucumone, conquisterà il potere regio a Roma, assumendo il nome di Tarquinio (Prisco).

7.3. Il Lazio
Mentre ciò avviene, il Lazio è abitato da numerose popolazioni di pastori-agricoltori che, essendo in fase di crescita demografica, entrano fra loro in stretto rapporto e creano le entità “nazionali” dei Latini (area della foce del Tevere), dei Volsci (fra Lazio e Campania), Sabini (Lazio nord-orientale) ed Equi (Lazio sud-orientale), che sono organizzate sotto la figura di un capo, il cui potere è limitato dal Consiglio dei capiclan. Approfittando della loro superiorità, gli Etruschi avanzano in ogni direzione possibile e assoggettano le popolazioni che non sono in grado di opporre loro una valida resistenza. Mentre ciò avviene, il Lazio è abitato da numerose popolazioni di pastori-agricoltori che, essendo in fase di crescita demografica, entrano fra loro in sempre più stretto rapporto e, nel tentativo di differenziarsi e affermarsi, creano le entità “nazionali” dei Latini (presso la foce del Tevere), dei Volsci (fra Lazio e Campania), dei Sabini (nel Lazio nord-orientale) e degli Equi (Lazio sud-orientale), che sono organizzati sotto la figura di un capo, il cui potere è limitato dal Consiglio dei capi clan.
Alla fine del VII sec., gli Etruschi invadono il Lazio e cominciano a nutrirlo della loro superiore cultura. I loro costruttori, gli artigiani, i mercanti, i medici, gli esperti nell’arte politica o nelle pratiche religiose, a poco a poco, trasformano alcuni di quei villaggi in vere e proprie città. Le carovane di mercanti etruschi, dirette alla città greche della Campania, attraversano il Tevere, nei punti in cui le acque del fiume sono particolarmente basse, vale a dire in vicinanza dell’area dove sorgerà Roma, che adesso è abitata da rudi pastori e contadini, i quali vivono in piccoli villaggi di capanne sui colli Esquilino e Palatino.

7.4. Roma
Secondo la leggenda, dopo la caduta di Troia, quando ancora Roma è un insignificante villaggio, l’eroe troiano Enea si dirige in Italia, dove fonda la città di Lavinio, mentre, alcuni anni dopo, suo figlio Ascanio, o Iulo, fonda Alba Longa, che, per molti anni, sarà la città più importante del Lazio. Ai tempi in cui Alba Longa è governata dal re Numitore, avviene che il malvagio Amulio, il di lui fratello, spodesti il re e costringa sua figlia, di nome Rea Silvia, ad abbracciare la verginità sacerdotale. Ma Rea Silvia viene amata dal dio Marte e da quella unione nascono due gemelli, Romolo e Remo, i quali, per evitare di cadere nelle mani di Amulio, vengono affidati alle acque del Tevere e salvati da una lupa. Divenuti adulti, essi uccidono lo zio e restituiscono il regno al buon Numitore, ottenendone in cambio il permesso di fondare una nuova città, che viene chiamata Roma. Romolo ne diviene il primo re dopo aver ucciso il fratello.
In realtà nulla sappiamo di certo né sulla fondazione di Roma, né su Romolo o Remo e, come al solito, quello che sappiamo è in parte frutto di immaginazione. Secondo Livio (II, 1), il popolo romano trae origine da un’accozzaglia di pastori, transfughi e gente raccogliticcia, che di norma sono costituiti da famiglie allargate e da clan, all’interno dei quali il pater familias e il capo clan esercitano un potere assoluto e sovrano, ma, talvolta, si organizzano sotto la guida di un re, in modo da formare un corpo politico “nazionale”. È possibile che Romolo e Remo siano in realtà i capi di due potenti clan pastorali che affollano la regione della foce del Tevere, insieme a molti altri clan dei Latini. Da anni essi traggono una ragguardevole quantità di beni dagli assalti alle carovane etrusche in transito, anche se sanno che poi dovranno aspettarsi le immancabili rappresaglie, per meglio difendersi dalle quali Romolo e Remo cercano e ottengono senza fatica l’appoggio di altri capi clan.
La situazione per gli etruschi comincia a diventare seria e, dovendo decidere se affrontare il problema con uno scontro aperto oppure con un’azione indiretta, si risolvono per questa seconda e riescono a mettere l’uno contro l’altro i due capi, a ciascuno dei quali promettono separatamente di fare di lui un re, se riesce ad imporsi sull’altro. I due si preparano allo scontro e cercano alleati, ma è Romolo ad ottenere un appoggio che si rivelerà prezioso, quello di un potente clan sabino. Alla fine ha la meglio Romolo, che uccide Remo e pone sotto il proprio controllo numerosi clan del Lazio, ma, non avendo né i mezzi né le capacità per organizzare un regno, deve accettare l’intervento degli etruschi, che lo aiutano a fondare e governare una città, che assume il nome inequivocabilmente etrusco di Rumon, ossia la città del fiume, cioè Roma (753 ca.).

7.4.1. I primi storiografi di Roma
Livio visse a cavallo della nostra era, ma non fu il solo a scrivere della storia di Roma. I primi storiografi di Roma, Timeo, Fabio Pittore e Cincio Alimento, vissero nel III secolo, Marcio Porcio Catone nel II, Diodoro Siculo, Marco Terenzio Varrone e Dionigi di Alicarnasso nel I secolo. La distanza che li separa dalle origini di Roma è di almeno mezzo millennio: troppo per pretendere da essi un racconto storico corrispondente al vero. La discordante datazione della fondazione di Roma (Timeo la colloca nell’814, Marrone nel 753, Fabio Pittore nel 748, Cincio Alimento nel 728) dimostra i limiti di conoscenza di questi studiosi. Per nostra fortuna, oggi disponiamo di una maggiore documentazione, soprattutto di natura archeologica, e di maggiori mezzi di indagine, talché ci è possibile tentare una ricostruzione più verosimile dei fatti che segnano l’origine di Roma.

Già nel IX secolo abbiamo attestazioni che i celeberrimi «sette colli» di Roma sono abitati da gruppi tribali con caratteristiche dello chiefdom, distribuiti in clan o gentes (come qui si chiamano), più o meno potenti. Ormai il nome della famiglia biologica non è più sufficiente a definire una persona, occorre anche quello della gens, senza del quale un uomo è come privo di protezione e alla mercè di qualsiasi prepotente. Comincia così a diffondersi l’uso del doppio nome “per indicare l’appartenenza ad un gruppo più ampio della famiglia nucleare” (MOMIGLIANO 1989: 36). Secondo Momigliano, queste prime gentes si comportano come vere e proprie bande, che ricorrono alla forza per far valere i propri interessi su quelli di altre gentes e, a maggior ragione, su quelli che vivono fuori da una gens. L’unico modo di sopravvivere per questi ultimi è quello di entrare nell’orbita di una gens, come “clienti”. Il capobanda, da un lato acquista prestigio dall’appoggio dei suoi uomini e dei suoi clienti, dall’altro lato li ricompensa con terre, bottino e lavoro.
Nell’VIII secolo la situazione è questa: il clan di Romolo risiede sull’Aventino, mentre gli altri colli e l’area circostante Roma e fino al Tirreno sono occupati dai Latini e dai loro chiefdom, i più importanti dei quali sono Preneste, Ariccia e soprattutto Alba Longa. Questi clan, che in un primo tempo sono divisi e in lotta fra loro, sotto la minaccia etrusca si uniscono in una Lega (Septimontium), all’interno della quale Alba Longa occupa un posto preminente. È in questo contesto che opera Romolo, il capo villaggio dell’Aventino. Il fatto che egli sia proclamato re sta a dimostrare la volontà dei vari clan di unirsi in un sol popolo e di darsi un’organizzazione, per poter meglio affrontare le sfide del tempo. Cosa fa allora Romolo? Segna i limiti territoriali dei diversi clan, che risultano essere trenta, e dà a ciascuno di essi il nome di curia (da co-viria = comunità di persone). A ciascuno vengono assegnati due iugera di terra (= 5047 m2), di più se ha famiglia. Inizia così la sua opera riformatrice. Tutti i maschi adulti di ciascuna curia costituiscono l’assemblea popolare, chiamata comizio curiato, che ha funzione consultiva, acclama il re e accetta le leggi proposte dallo stesso. Ciascuna curia ha il dovere fornire al re, in caso di necessità, 100 fanti e 10 cavalieri, mentre chiama vicino a sé i dieci capi-famiglia più anziani (Senes) di ogni curia, che formano il Consiglio del re (il futuro Senatus), svolgendo tre importanti funzioni: gestire l’interregno alla morte del re, ratificare le decisioni dei comizi e coadiuvare il re nel governo della città. I Senes, inoltre, su ordine del re, dividono il territorio di loro spettanza fra tutte le famiglie del proprio clan, in modo che ciascun capo-famiglia (pater) abbia la sua parte di terreno. Così nasce a Roma la proprietà privata.
Dopo che queste cose sono state fatte, Romolo, ben consigliato dagli esperti etruschi, allo scopo di confermare e consolidare il suo potere, convoca tutti i comizi curiati e, davanti a loro, pronuncia un discorso, nel quale afferma di aver ricevuto dal suo dio clanico l’ordine di riunire tutti i trenta clan in un unico popolo e di governarli, in nome e per conto di quel dio. L’Assemblea accetta quell’investitura divina e acclama Romolo legittimo re di Roma e di tutte le sue curie. È solo a quel punto che il re dà ordine che gli venga costruita una residenza degna del proprio rango sul colle Palatino con tanto di cinta muraria. La storia di Roma è cominciata. Romolo è adesso il primo re di una città modesta, certo, ma molto superiore in potenza e cultura a tutti i piccoli villaggi che l’hanno preceduta.
Romolo può essere soddisfatto, come lo sono anche gli etruschi, che hanno risolto il problema della sicurezza delle loro carovane in transito e, per di più, possono contare su una città amica, ma si monta la testa e pretende di governare come un despota, senza tenere in debito conto la tradizionale sovranità dei capi clan e soprattutto dei Senes, che reagiscono con furore, mettendo a morte il re e facendone sparire il corpo, il che alimenterà la diffusione della leggenda dell’apoteosi (Livio I, 16), secondo la quale Romolo avrebbe guadagnato la sfera divina da cui proveniva. La fondazione di Roma ad opera di un dio è ciò che serva alla città, una volta divenuta potente, per dare una rassicurante garanzia di eternità al suo impero.
Ai tempi di Romolo (753-16), Roma è una delle tante città del Lazio, come Alba Longa, e confina con alcune popolazioni, tra le quali vanno ricordate quelle dei Sabini, degli Equi, dei Latini e dei Volsci, che stanno percorrendo, o hanno percorso, lo stesso cammino, passando dallo stato tribale a quello urbano e monarchico. Tra queste popolazioni si stabiliscono rapporti stabili e stretti, grazie anche ai legami di sangue maturati attraverso la pratica, sempre più consuetudinaria, di matrimoni esogamici, come attesta la leggenda del ratto delle Sabine. La crescita demografica, che si registra in questo periodo, fa sì che i diversi clan si avvicinino fra loro, intensificando i loro rapporti culturali e commerciali e fondando centri urbani con società stratificate. In particolari condizioni di accesa competizione fra le diverse popolazioni, queste condizioni risultano favorevoli all’affermazione della monarchia.
Sotto Romolo, Roma è fatto oggetto delle mire di capibanda stranieri, che minacciano la città, interferiscono negli affari delle gentes locali e prendono parte alle loro lotte politiche, finendo talvolta per assumere il potere regio. Alla morte di Romolo, sale al trono il sabino Numa Pompilio (715-672), un re pacifico, che lega il suo nome ad alcune riforme in campo religioso. Gli succede il bellicoso re latino Tullio Ostilio (672-40), a cui si deve la presa di Alba Longa e l’inizio della politica espansiva di Roma. Anche in questo caso la leggenda non manca di rimarcare la consuetudine dello scambio di donne tra le popolazioni delle due città, che adesso lottano per l’egemonia. È proprio la constatazione di essere imparentate, che induce le due città a cercare un modo per comporre la contesa, evitando un eccessivo spargimento di sangue, ed ecco allora che si decide di affidare le sorti della guerra ad un duello fra tre gemelli romani (Orazi) e tre gemelli albani (Curiazi). Vincono gli Orazi e, dunque, Roma. Si narra che l’unico Orazio sopravvissuto, vedendo la propria sorella piangere per la morte di uno dei Curiazi, suo fidanzato, non sia riuscito a tollerare quell’atteggiamento d’amore nei confronti di un nemico e abbia trafitto la poveretta con la spada.
Adesso Roma è divenuta la città più potente del Lazio e il nuovo re, il sabino Anco Marzio (640-16), la governa in modo relativamente pacifico, mentre si va profilando all’orizzonte la minaccia degli etruschi, che in questo momento sono molto competitivi e i cui principi sono in grado di impegnarsi in azioni militari per conquistare il potere a Roma, da cui Anco Marzio deve difendersi negli ultimi anni del suo regno. In questo periodo, non esistono ancora regola di successione dinastica e, il più delle volte, il potere regio viene conquistato con le armi e poi esercitato come un potere personale, in modo non molto dissimile dalla tirannide. Esiste, insomma, un “generale prevalere delle ragioni di forza” (PALLOTTINO 1993: 334).
È in questo clima che Lucio Tarquinio, poi conosciuto col nome di Tarquinio Prisco (616-578), conquista il potere regio a Roma, inaugurandovi un periodo di dominazione etrusca. Con Tarquinio la componente etrusca si impone su quelle sabina, albana e latina e Roma si apre all’influenza greca e orientale. Tarquinio non solo rende più bella e potente la città ma incrementa anche il proprio potere, assumendo alcune delle prerogative, che prima erano riservate, in tutto o in parte, al Senato, come l’elezione del re e la scelta dei comandanti militari. La classe aristocratica incassa il colpo con suo grande disappunto, perché non può accettare che il potere regio sia nella mani di uno straniero, e trama contro Tarquinio, fino a farlo cadere.
Tra i signori che hanno appoggiato Tarquinio nella conquista del potere merita di essere ricordato Celio Vibenna, non tanto perché questi si insedia sul monte Celio, al quale dà il nome, quanto perché al suo seguito c’è un certo Mastarna, il comandante della fanteria di non nobili origini che, sfruttando abilmente la situazione a lui favorevole che si viene a determinare dopo la scomparsa del Vibenna stesso e l’uccisione di Tarquinio, riuscirà a salire sul trono assumendo il nome gentilizio (binomiale) di Servio Tullio (578-34), che, secondo alcuni, tradisce le sue umili origini, secondo altri, costituisce l’espressione del potere raggiunto dal populus. Sarà per le sue origini, o per il desiderio di guadagnarsi un ampio consenso di clan, oppure per contrastare l’eccessivo potere di alcuni capiclan, che ambiscono ad ottenere privilegi ereditari, fatto sta che Tullio si impegna in una radicale riforma sociale, che da molti è ritenuta necessaria ora che Roma controlla una popolazione numerosa e variegata.
La riforma tulliana si ispira probabilmente a quella del suo contemporaneo Solone, rispetto alla quale presenta molte affinità, anche se diverso sarà l’esito finale: dalla riforma di Solone origina una repubblica democratica, da quella di Tullio una repubblica aristocratica. Tullio divide dunque la società romana in venti distretti o tribù territoriali, quattro corrispondenti ai quartieri urbani e sedici alle campagne, e le famiglie in cinque classi, secondo il reddito: la prima comprende i cittadini più facoltosi, la quinta i meno abbienti, che sono anche i più numerosi. Ciascuna classe, poi, viene ripartita in centurie per un totale di 193. Tutti i membri maschili adulti di una tribù costituiscono il comizio tributo, mentre quelli di una centuria formano il comizio centuriato. La consultazione popolare da parte del re implica la votazione delle centurie, ciascuna della quali ha diritto ad un voto, e vale il principio che la maggioranza decide. Non si tratta però di un metodo democratico, come potrebbe sembrare a prima vista. Cominciano a votare, infatti, i comizi della prima classe e la consultazione ha termine nel momento in cui si è raggiunta la maggioranza. Spesso le ultime centurie, che sono anche le più numerose, risultano escluse dal voto. Questo sistema rimarrà in vigore sino alla fine della Repubblica. Ogni centuria è tenuta a fornire un determinato numero di soldati e un certo quantitativo di tasse, mentre, le è riconosciuto il diritto ad una corrispondente porzione di bottino in caso di vittoria, che essa provvederà a ripartire tra le famiglie al proprio interno. Ogni soldato è tenuto ad armarsi a proprie spese e secondo le proprie possibilità, perciò solo i cittadini più facoltosi possono disporre di armature pesanti. I più benestanti possono permettersi anche un cavallo: sono i cavalieri, che col tempo andranno a formare una vera e propria classe sociale, l’ordine equestre, e contenderanno ai patrizi le funzioni pubbliche di maggior prestigio. La prima classe, detta anche classis, è composta dagli uomini che formano l’esercito oplitico, ossia la fanteria pesante o legione (la cavalleria, al momento, è seconda rispetto alla fanteria, anche perché poco efficiente a causa dell’inesistenza della staffa). La prima classe è composta da un centinaio di famiglie patrizie (gentes) e dai loro clienti, ossia dal populus propriamente detto. Il magister populi, o dittatore, è di fatto la maggiore autorità della città. Le altre classi, fino alla quinta, dette anche infra classem, costituiscono le truppe ausiliarie, armate in modo leggero. Sono i plebei.
“In una repubblica di guerrieri, gli uomini che sono al di fuori dell’esercito sono anche quelli che non hanno potere politico. I plebei devono essere stati uomini che erano al di fuori delle clientele: piccoli proprietari terrieri troppo poveri per entrare nella classis, artigiani, poveri commercianti” (MOMIGLIANO 1989: 156). I nullatenenti, che formano una sorta di sesta classe, sono esclusi dalla leva militare e non partecipano alla distribuzione dell’eventuale bottino di guerra. In pratica, l’esercito, che è strutturato secondo la tattica oplitica, da privato che era, ora diventa pubblico e “opera per conto non più di un ricco signore o di un clan, ma della comunità cittadina” (CAMPOREALE 2000: 83).
Tullio si distingue anche per la sua politica a favore delle classi più deboli, cui concede delle terre, e per aver dotato la città di una nuova cinta muraria, molto più estesa della precedente, che adesso circonda ben sette colli. Roma comincia ad essere, anche nell’aspetto, una città importante, ed è in grado di competere con qualunque altra città dell’epoca.
Se Roma è forte, gli Etruschi lo sono ancora di più, tanto da poter tentare l’impresa di soggiogare l’intera penisola italica (550-423), espandendosi verso la pianura Padana e la Campania, oltre che verso le coste tirreniche, dove dovranno scontrarsi con Galli, Osci e Siracusani. A Roma i Tarquinii riescono a riconquistare il potere con Lucio Tarquinio, figlio o nipote del Prisco, al quale Servio Tullio ha dato in isposa una propria figlia. Appellandosi al suo diritto ereditario, Lucio mette in atto un colpo di Stato, nel corso del quale Servio Tullio rimane ucciso, e verrà ricordato come Tarquinio il Superbo (530-10), a causa del suo comportamento autoritario. Il suo regno si apre infatti con l’eliminazione cruenta dei fautori di Servio e si caratterizza per la tendenza di rafforzare il proprio potere e renderlo assoluto ed ereditario. Il Senato, però, gli oppone resistenza e, servendosi di promesse, cerca di guadagnare l’appoggio del popolo, che così comincia ad avere un peso sociale e a partecipare del potere politico.
La Roma dei Tarquinii è una città ricca e civilizzata, che ha adottato molte delle caratteristiche organizzativo-politiche della polis greca, pur senza giungere ai livelli di democraticità di Atene, mentre dagli etruschi ha importato il calendario, l’alfabeto, la moda e l’urbanistica. La società è di tipo aristocratico, centrata sulla figura del cittadino benestante, che, oltre ad essere in grado di dotarsi di armi pesanti ed essere proprietario di campi, è circondato da un gruppo di clienti, di cittadini di rango inferiore che hanno in lui il punto di riferimento. Alla fine, sotto i ripetuti attacchi degli aristocratici appoggiati dal popolo, la monarchia viene abbattuta (510 ca.) e inutilmente Tarquinio tenterà di riconquistare il potere, nonostante l’aiuto offertogli dal re di Chiusi Porsenna, che mira a impossessarsi di Roma. Alla fine, l’esercito etrusco viene sconfitto ad Ariccia (504) e Roma può consolidare il suo assetto repubblicano.

7.4.2. La monarchia di Roma
“Per quanto possiamo giudicare, la maggior parte dei re di Roma erano capibanda, non necessariamente di estrazione romana, e neanche latina, che persuasero o costrinsero l’aristocrazia locale ad accettare la loro supremazia” (MOMIGLIANO 1989: 35). La monarchia non è ereditaria, i re sono spesso stranieri e hanno bisogno dei notabili locali, cui riconoscono un certo potere, pur esercitando il diritto di scegliere i propri consiglieri.

Alla fine del VI secolo, la società romana si articola nel modo seguente: al vertice ci sono i patrizi, vale a dire i ricchi proprietari terrieri, seguiti da uno stuolo di Clienti, vale a dire di famiglie devote e fedeli, dotate di un censo adeguato all’acquisto di un armatura, che offrono il proprio sostegno al signore in cambio della sua protezione e della concessioni di privilegi. Possiamo chiamarli clan di alto rango, oppure classi dominanti, oppure consorterie politico-militari, oppure bande, o in qualsiasi altro modo preferiamo. Di fatto, essi costituiscono uno Stato nello Stato e godono di una relativa sovranità. Ci sono poi famiglie artigiane, commercianti e contadine, che dispongono di un certo censo, ma non fanno parte di nessuna consorteria e godono di minori diritti. Dopo l’affermazione della fanteria, essi acquistano dignità di populus ed elevano il proprio stato sociale. Al gradino più basso c’è la plebe, ossia coloro che dispongono di censo insufficiente ad armarsi ed entrare nella fanteria. Sono questi i protagonisti di una Repubblica, che nasce in risposta all’affermazione della tattica oplitica e alla corrispondente ascesa della plebe (MAZZARINO 1992: 195).

6. Minoici, Micenei e Greci

6.1. La civiltà minoica
Intorno a 5 Kyr fa, mentre la Grecia è abitata da numerose popolazioni tribali, che Erodoto chiama Pelasgi, nell’isola di Creta comincia ad affermarsi la cosiddetta civiltà minoica, che raggiungerà il suo massimo splendore fra il 4000 e il 3400 BP. Il termine minoico trae la sua origine da quello che alcuni ritengono essere stato il primo grande re cretese, Minosse, che avrebbe avuto il merito di aver portato all’unità politica i vari reami che erano presenti nell’isola.
La civiltà minoica del II millennio si caratterizza per la presenza di numerose città-stato (Omero parla di “Creta dalle cento città”), fra cui ricordiamo Cnosso, Gortina, Mallo, Festo, Litto e Cidonia, che sono rette da regimi monarchici e dove i sontuosi palazzi delle poche famiglie nobili e del re fanno contrasto con le abitazioni fitte e minute della gente comune. La città si identifica coi suoi palazzi, ossia con la classe aristocratica, mentre il popolo è costretto a vivere di duro lavoro e ai limiti della sussistenza, a beneficio dei ricchi signori. È la classica società duale.
I Cretesi sono gente pacifica, come induce a credere il fatto che le loro città non sono fortificate, ed operosa, che sa distinguersi nella lavorazione dei metalli, delle pietre preziose, dei tessuti e della ceramica, ma soprattutto esperta nella navigazione e nel commercio. Nei loro viaggi vengono a contatto con gli abitanti di molte isole dell’Egeo e della stessa Grecia, ai quali esportano, insieme alle mercanzie, la propria cultura. Anche se il benessere dell’isola proviene principalmente dal commercio, i Cretesi non conoscono il denaro. Conoscono invece la scrittura, che è “confinata nella dimora del re; destinata a compiti amministrativi e manipolata da funzionari o impiegati che sorvegliano le entrate e le uscite di beni e ricchezze” (DETIENNE 1997: XI).
A partire dall’inizio del secondo millennio, alcune popolazioni indoeuropee penetrano nel territorio greco, ad ondate successive e più o meno pacificamente, integrandosi o sostituendosi ai Pelasgi. Sono gli Achei, gli Ioni, gli Eoli e i Dori. I primi ad arrivare sono gli Achei, una popolazione celtica originaria dall’Europa centrale, che sciamano nel Peloponneso. Seguono gli Ioni, che sono divisi in quattro tribù (fylai), si stabiliscono nel nord del Peloponneso e nell’Attica, da dove si spargono nelle isole dell’Egeo e nelle coste dell’Asia Minore, fondandovi dodici città, tra cui Efeso e Mileto. Gli Eoli si insediano in Tessaglia, in Beozia e nel Peloponneso, per poi raggiungere la costa dell’Asia Minore (dove fondano una trentina di città) e l’isola di Lesbo. I Dori, divisi in tre tribù, costituiscono l’ultima popolazione indoeuropea a penetrare in Grecia. Essi convivono a lungo con gli Achei e, forse, alla fine ne distruggono la civiltà.

6.2. La civiltà micenea
Secondo alcuni studiosi, nel XV secolo Creta è conquistata dagli Achei, ma il fatto non è certo. Secondo un’altra ipotesi, che forse è più attendibile, la civiltà minoica crolla non a causa di nemici esterni, bensì ad opera dell’insurrezione armata delle classi più povere contro i prepotenti aristocratici, che vengono abbattuti insieme ai loro palazzi o costretti a fuggire. In ogni caso, il crollo dell’ultimo dei grandi palazzi, quello di Cnosso (1375), segna la fine della civiltà palaziale e l’ascesa di un’altra civiltà, quella micenea, che si è andata sviluppando in terra greca ad opera degli Achei, che hanno assimilato la cultura minoica e, integrandola con la propria, hanno danno vita alla civiltà micenea (1600-1150), chiamata così dalla città di Micene.
Non dobbiamo pensare alla civiltà micenea come a un grande regno o ad un impero, ma piuttosto come a tanti piccoli regni indipendenti, dove vige un sistema sociale di tipo piramidale-monarchico, con a capo un re detto wanax, investito di potere assoluto, il quale risiede in un sontuoso palazzo fortificato, che è un vero e proprio centro di potere e di cultura. Il re è innanzitutto un capo militare, ma svolge anche funzioni di sacerdote e di magistrato supremo e, dato che non esiste una legge scritta, è lui la legge. La seconda autorità del regno, dopo il re, è il lavaghetas. Seguono le famiglie aristocratiche, dalle quali proviene la classe elitaria dei guerrieri (equetai) e degli alti funzionari (telestai). A grande distanza, si colloca la massa dei lavoratori (contadini, artigiani, ecc.) che, privi di diritti, vivono, per lo più, in stato di indigenza. L’ultimo gradino della scala sociale è occupato dagli schiavi. Per dare una risposta alla domanda di beni che viene dal Palazzo, i mercanti micenei percorrono in lungo e in largo il Mediterraneo, creando qua e là degli insediamenti costieri, che ancora non hanno dignità di colonie. Essi cercano innanzitutto ossidiana, allume, metalli pregiati e altre materie prime.
Nel XII secolo la potenza micenea crolla, forse per mano dei Dori, che si insediano in Argolide, Laconia e Messenia. L’invasione dorica è favorita dai problemi sociali interni che affliggono molte città micenee, che sono insorti con la guerra di Troia e aggravati dopo di essa, quando i signori, lottando fra loro nel tentativo non riuscito di conquistare l’egemonia, alla fine si indeboliscono e vengono sopraffatti dalle popolazioni in rivolta. Quale che ne sia la causa, dopo il crollo della civiltà micenea, molte famiglie aristocratiche sopravvissute abbandonano la loro terra in cerca di nuovi luoghi dove stabilirsi. Scomparse le famiglie regnanti, la popolazione rimane rada e frammentata in piccoli villaggi, le lotte per il potere si arrestano ed anche la cultura conosce un sensibile declino.

6.3. Il medioevo ellenico
Tramontata la monarchia micenea, i Greci possono godere di un lungo periodo di pace, ma non di prosperità. È un periodo decisamente oscuro, e perciò chiamato Medioevo ellenico, che segna il passaggio dalla monarchia palaziale ad un sistema di signorie locali centrate sulla figura del basileus, che si protrarrà fino al IX secolo. È con l’intento di legittimare questa realtà sociale che Omero la fa originare dalla sfera divina: Achille discende da Oceano e Teti, Ulisse da Ermes. È come dire che si tratta di personaggi di sangue blu. In quanto discendente divino, ogni basileus è anzitutto sacerdote e dispensatore di giustizia (dike) e la sua parola è sacra, ma, in quanto basileus, è anche capo dell’esercito. Il suo potere è comunque limitato non solo dagli altri notabili e dall’assemblea degli «anziani», cioè dai capiclan più ragguardevoli, di cui ci parla Omero nel secondo libro dell’Iliade (70ss), ma, perfino, dalle persone comuni. Questa realtà sociale si intravede chiaramente nella ribellione ad Agamennone (definito il massimo dei re) sia da parte dell’aristocratico Achille sia da parte del soldato semplice Tersite.
Nonostante questi segni di crisi, nella società omerica il potere appare ancora saldamente nelle mani dei basilees e risulta ancora inimmaginabile un governo di molti: la massa dei soldati, che nell’Iliade rimane come un’ombra sullo sfondo, prefigura appena quella forza sociale che nel V secolo darà origine alla democrazia. La società omerica non conosce la scrittura, né il denaro, né il commercio e pratica un’economia essenzialmente rurale, integrata con azioni di razzia. Essa comprende tre classi sociali: i nobili signori, che sono anche i ricchi possidenti e i detentori del potere; coloro che esercitano un’arte (demiurghi o artigiani, medici, indovini, costruttori, cantori, ecc.); i teti, ossia coloro che, non avendo né terre, né mestiere, vivono alle dipendenze altrui, come salariati, privi di sicurezza e di diritti, sebbene in teoria liberi.
In questo periodo nascono Atene e Sparta, le due poleis che impronteranno la storia della Grecia nei secoli avvenire. La calata dei dori risparmia l’Attica e qui trovano rifugio molti clan (eoli e ioni), che sono messi in fuga dall’arrivo dei dori. Nel X secolo Atene viene messa a battesimo dall’unione di alcuni villaggi, che decidono di confederarsi sotto la guida di un re (sinecismo). Lo stesso faranno gli altri villaggi: è l’unico modo per non essere sopraffatti. Così, nel corso del IX secolo, gli innumerevoli clan ellenici sono spinti dalle circostanze a unirsi sotto un capo comune e a costituire hiedo. In alcuni casi, il processo di sinecismo è ostacolato dalla resistenza di molti capi clan, che, non intendendo rinunciare alla propria sovranità, aprono uno stato di lotta per il potere, che si può concludere in tanti modi diversi: per esempio, con un accordo pacifico, o con una vittoria militare da parte di un capo clan sugli altri, oppure con l’allontanamento volontario o coatto di uno o più clan. Questi clan che, per un motivo o per un altro, lasciano la loro terra, si mettono alla disperata ricerca di nuovi spazi, ma l’impresa non dev’essere delle più semplici, almeno nella stessa regione, dove la competizione è aspra. Essi perciò si allontanano sempre più, seguendo le rotte dei mercanti o mettendosi al loro seguito.
Si gettano così le basi del fenomeno di colonizzazione, che inizia nel IX secolo, insieme al processo che conduce alla fondazione delle città, per esplodere nel secolo seguente. La causa è comune ed è da ricercare nell’incremento demografico che si registra in questo periodo nella regione egea e che si accompagna ad un incremento dei bisogni, alla fame di terre e di risorse e alla crescente competizione fra i clan, che tendono ad unirsi sotto un capo comune, allo scopo di accrescere la propria forza, che ora è necessaria per difendere la propria terra, ma anche per conquistarne di nuova. In questo clima, se alcuni capi clan assumono dignità regale, altri sono costretti a sottomettersi o a cercare fortuna altrove. Interi clan allora si muovono alla ricerca di territori disabitati, o abitati da popolazioni rade e poco organizzate, che possono essere facilmente allontanate o annientate. Generalmente, la fondazione delle colonie (apoikiai, letteralmente «lontano da casa») non dipende “da una precisa volontà politica, espansionistica delle madrepatrie, ma da esigenze concrete varie, e il più delle volte spontaneamente” (GABBA 1995: 45).
I primi effetti dell’incremento demografico si manifestano nell’Eubea, dove, oltre alla fondazione di città (Eretria, Calcide, Caristo), si registrano le prime migrazioni di clan alla ricerca di nuovi spazi da occupare. La via più sicura è il mare, lungo le rotte già tracciate dai mercanti, che da tempo si muovono alla ricerca di materie prime e scambiano merci con popolazioni lontane. A sud non si può andare, perché è già densamente popolato da genti evolute e ben organizzate (Siria, Egitto): non resta che dirigersi a est, verso il Mediterraneo e a ovest, verso il mar Nero.

6.3.1 Il difficile compito dei colonizzatori
Nulla sappiamo di questi primi gruppi, che lasciavano la propria terra: poteva trattarsi di un manipolo di soli uomini, che andava in avanscoperta, oppure di un intero clan o di più clan, che partivano per non più tornare. Non sappiamo nemmeno con quali criteri essi sceglievano la terra su cui insediarsi e quale tipo di rapporto stabilivano con le popolazioni indigene. Possiamo presumere che la scelta della terra dovesse avvenire sulla base della sua fertilità, vicinanza alla costa e difendibilità, ma soprattutto della consistenza numerica e della forza delle popolazioni locali. Sotto questo aspetto, dovevano risultare preziose le informazioni dei mercanti. In ogni caso, il compito era gravato da numerose incognite e difficoltà di vario genere. Periò si rendeva necessaria una salda organizzazione, che si affidava all’autorità di un capo spedizione, chiamato ecista.
Una volta giunti sul posto, per questi avventurosi coloni si apriva un capitolo di storia dagli esiti incerti e imprevedibili. Potevanno essere attaccati e massacrati dalla popolazione indigena, oppure potevano essere loro a riservare lo stesso trattamento ai locali, o più semplicemente a indurli ad allontanarsi. In altre circostanze poteva stabilirsi fra le due popolazioni un rapporto pacifico e di mutuo vantaggio, in cui i coloni ricevevano terra e risorse, gli indigeni la superiore cultura dei nuovi arrivati, e tutto ciò poteva esitare in una quanto meno parziale integrazione. In caso di successo, l’ecista provvedeva a dividere la terra occupata alle varie famiglie, secondo un criterio uguaglianza, forse in base a sorteggio, e guidava le operazioni di urbanizzazione, secondo il modello della madrepatria.
Nascono così le colonie greche, lungo le coste del Mediterrano e del mar Nero, come risposta al bisogno di nuovi spazi e nuove risorse. Lo stesso obiettivo può essere raggiunto senza allontanarsi dal proprio ambiente, com’è il caso di Sparta, che, dopo essere stata fondata attraverso il consueto processo del sinecismo (IX secolo), subito si dà un assetto militarista e inizia ad espandersi localmente, finendo per occupare prima la Laconia e poi la Messenia. Nel corso della guerra contro la Messenia, che si rivela aspra e lunga (735-668), gli spartani si dividono in una maggioranza, che è favorevole a insistere nella politica espansionistica, e una minoranza filo-messena, che è contraria ed è costretta a cercare fortuna altrove. Ebbene, sono costoro che andranno a fondare la colonia di Taranto (708), certo non in modo pacifico. Insomma, colonialismo ed espansionismo locale costituiscono due aspetti dello stesso fenomeno: bisogno di difendere terre, o di conquistarle.

6.3.2. Guerra come lavoro
Perché l’uomo lavora? Le ragioni possono essere tante, ma certamente una delle più importanti è quella di guadagnarsi di che vivere e, possibilmente, di acquistare beni immobili. Ebbene, quando l’uomo viveva in clan e tribù, il lavoro salariato non esisteva: nessuno andava a lavorare sotto padrone e nessuno dirigeva un’azienda produttiva. Ogni clan era sovrano e decideva liberamente come procurarsi il necessario per la sussistenza o un qualche surplus.
Fino alla scoperta dell’agricoltura, i singoli clan non hanno una residenza fissa e si muovono alla ricerca di acqua e cibo secondo necessità. Dopo la scoperta dell’agricoltura i clan si dividono in due gruppi: gli agricoltori-stanziali, che sono legati alla terra, i pastori-nomadi, che sono legati alla necessità di trovare acqua e pascoli per il loro gregge. Questi ultimi vivono alla giornata e non portano con sé oggetti ingombranti, né scorte, ma solo l’occorrente per piantare una tenda nel luogo dove decidono di accamparsi. Il più importante ostacolo per una comunità in cammino è quello di imbattersi in un’altra comunità che miri ad insediarsi nello stesso territorio.
Quando due comunità si trovano a vivere per un certo periodo in stretta vicinanza, può capitare che membri di una comunità attuino azioni di rapina o razzia a danno di membri dell’altra comunità. In questi casi, i razziatori possono aspettarsi azioni di ritorsione, ma poiché quando le cose si mettono male una comunità può decidere di allontanarsi, difficilmente si giunge ad uno stato di guerra vera e propria.
Diversa è la condizione delle comunità agricole, le quali, non potendo allontanarsi, si trovano costrette a difendere le proprie vite e le proprie colture restando sul posto. È, pertanto, naturale che, all’interno di una tribù di agricoltori, qualche clan si specializzi in senso militare e venga accettato dagli altri clan. Il clan guerriero si impegna a difendere il territorio della tribù in cambio di un piccolo tributo imposto alle famiglie contadine.
È così che si determinano le condizioni per l’affermazione della guerra. I clan guerrieri, infatti, non si limitano ad azioni di difesa ma, all’occorrenza, possono decidere di attaccare altri clan per appropriarsi dei loro beni e delle loro terre. Inizialmente, si pratica solo una guerra di razzia, tesa a procurarsi beni di cui si sia carenti: si toglie agli altri ciò che serve per la propria sopravvivenza. Insomma, la guerra diventa una sorta di lavoro. Ha ragione dunque Marx quando nota che la guerra è “uno dei lavori più antichi […], sia per la difesa della proprietà, sia per la sua acquisizione” (1970: II, 117).
Col passare del tempo, la guerra si afferma come “il fattore di base della crescita economica” (FINLEY 1998: 116) e finisce anche per divenire uno strumento di potere politico. “Nell’antichità, la conquista comportava regolarmente la presa di possesso del territorio a fini di sfruttamento, nonché l’imposizione di gravami fiscali o militari sulle comunità assoggettate” (FINLEY 1998: 131).
Ora, possiamo chiederci: perché un uomo accetta di impugnare le armi e mettere in pericolo la propria vita? Certamente perché, ponendo vantaggi e svantaggi sui piatti di una bilancia, i primi superano i secondi. Il guerriero semplice può essere attratto dall’opportunità di avere di che mangiare e di partecipare alla spartizione di bottini, schiavi e terreni confiscati al nemico, mentre il generale può essere mosso dalla prospettiva di una carriera politica.

6.4. Il Periodo arcaico
Il Medioevo è seguito dal cosiddetto Periodo Arcaico, che si estende dall’VIII al VI secolo e rappresenta un periodo cruciale nella storia della civiltà greca, almeno per quattro ragioni: la diffusione di santuari e di feste panelleniche, l’affermazione di una lingua comune e il fenomeno della colonizzazione, che stanno alla base dell’unità culturale dei Greci.
Nonostante il tramonto della monarchia e la crisi del basileato, la società rimane di tipo duale: le poche famiglie aristocratiche si dividono le risorse, mentre le masse lavorano sodo nei propri piccoli poderi e vivono in condizioni di sussistenza. Non si tratta però di società feudali, dal momento che non vi è una classe che deve rendere servigi all’aristocrazia in cambio di terra, bensì di centri agricoli, inegualmente divisi fra tanti contadini liberi. A causa dei debiti, molti contadini si vedono costretti a dare in garanzia prima la propria terra, poi i propri familiari e infine la propria persona, rischiando di ridursi in schiavitù per insolvenza.
Detenendo anche il potere giuridico, le classi possidenti possono agevolmente calpestare i legittimi diritti di quelle più deboli, e così divampano le tensioni sociali, che spingono molti clan ad abbandonare le loro terre e ad imbarcarsi sulle navi dei mercanti e ad ingrossare i loro insediamenti: “cercano ricche pianure da strappare agli indigeni che riducono in condizione di servi o di tributari. L’insediamento avviene dunque con la forza, in un ambiente naturalmente ostile” (MOSCATI 1987: 13). Si tratta dunque di piccoli eserciti, capaci di piccole azioni di conquista, come può essere quella di un territorio tanto esteso da ospitare una città. “È ovvio –sostiene Momigliano– che la guerra e la colonizzazione sono nozioni strettamente collegate che servono a spiegarsi a vicenda” (1987: 61).

6.4.1. I soggetti della politica: polis e ghenos
Intanto, in molte località della Grecia le tensioni sociali continuano e divengono particolarmente acute ed estese tra il VII e il VI secolo, epoca in cui si costituiscono nuove forme di società urbane, che poggiano su due struttute portanti: la città-stato o polis, che è un vero e proprio fulcro del potere economico e politico, e la stirpe o clan o ghenos, che costituisce la cellula sociale fondamentale. L’individuo non ha valore per se stesso, ma solo in quanto membro di un ghenos, di cui fa parte per filiazione e che fa da intermediario fra lui e la polis. Dal momento che non si concepisce il valore dell’individuo in sé, non deve stupire il fatto che le norme del diritto non tengono conto dei fattori soggettivi – diremmo oggi psicologici – dell’atto criminoso, delle intenzioni del reo, delle sue motivazioni, delle eventuali attenuanti, così che si tende ad attribuire la stessa responsabilità e, quindi, la stessa pena a chi ha commesso un delitto premeditato e a chi lo ha commesso in modo involontario. Se un membro di un ghenos subisce un danno da parte di un estraneo, è l’intero ghenos che, in mancanza di una legislazione scritta, si fa giustizia da sé, e lo fa ricorrendo alla faida.

6.4.2. Nascita del diritto
In pratica, la giustizia è amministrata secondo una logica di forza e, di solito, sono i ghene più potenti a prevalere su quelli più deboli. Il desiderio di porre fine alle tensioni sociali è tale da indurre i ghene a ricorrere ad un arbitro, che generalmente è un aristocratico, per lo più prescelto al di fuori della cerchia cittadina, a garanzia della sua imparzialità, cui viene conferito l’incarico di stabilire delle regole, ossia di legiferare. Tra i primi legislatori a noi noti possiamo ricordare Taleta a Creta e Zaleuco a Locri, nella prima metà del VII secolo, Caronda a Catania e Dracone ad Atene, nell’ultimo quarto del VII secolo. Le leggi da loro promulgate vengono messe per iscritto, affinché chiunque abbia facoltà di consultarle, anche se, in realtà, possono farlo solo coloro che sanno leggere, ossia davvero pochi. La Grecia arcaica, infatti, mantiene una cultura quasi esclusivamente orale: gli stessi aedi, che cantano storie tramandate oralmente da una generazione all’altra, sono per lo più illetterati. Bisognerà aspettare il V secolo e la diffusione della sofistica prima che l’alfabetizzazione acquisti rilevanza sociale.

6.4.3. La tirannide
Nella polis c’è un luogo pubblico, detto agorà, dove si svolgono le assemblee popolari, quasi sempre per iniziativa di personaggi aristocratici. Inizialmente il popolo non vi ha diritto di parola e la sua presenza serve soltanto a recepire e approvare il volere dei nobili, ma questa situazione non si mantiene stabile, principalmente a causa delle divisioni all’interno della classe aristocratica, da cui trarrà origine quell’importante fenomeno sociale che va sotto il nome di tirannide.
Il tiranno è un nobile ambizioso che, dopo essersi messo alla testa degli insoddisfatti, attizza il disordine, rovescia il basilesus in carica e ne usurpa il potere. Tra i primi tiranni possiamo ricordare Cipselo di Corinto, Ortagora di Sicione, Policrate di Samo, Trasibulo di Mileto. Tutti hanno rovesciato un governo aristocratico e lo hanno sostituto con la propria signoria. Tratto comune ai tiranni è quello di stabilire relazioni con l’estero, potenziare la flotta e incrementare il commercio, costruire edifici pubblici, organizzare spettacoli e promuovere la cultura come mecenati ante litteram. Anche per ricambiare l’appoggio ottenuto dal popolo, molti tiranni finiscono per tutelare le legittime aspirazioni delle classi più deboli e realizzano una sorta di «democrazia anticipata» (BENGTSON 1989: 105). Il rovescio della medaglia consiste nel fatto che i tiranni tendono ad approfittare della propria posizione per fondare una dittatura personale o una dinastia. Per scongiurare un simile rischio, gli Ateniesi istituiranno quello che Meier chiama “l’unico strumento legale che sia mai stato inventato per arrestare per tempo l’ascesa di un usurpatore”: l’ostracismo.

6.4.4. Le colonie
Come dimostrano i rinvenimenti di ceramiche e altri materiali, i Greci frequentano i porti del Mediterraneo già in età micenea (XVI-XI sec. a.C.), allo scopo, probabilmente, di procurarsi materie prime o barattare merci con le popolazioni autoctone. I Greci arrivano con le loro navi, prendono, scambiano, caricano e ripartono, ma non si fermano, non ne hanno alcuna intenzione. Solo quando le condizioni nella loro patria si fanno particolarmente critiche, per una qualsivoglia ragione, qualcuno pensa di andarsene, almeno fintantoché non sarà possibile un loro ritorno, ma, talvolta, si trovano così bene che decidono di restare per sempre nel nuovo insediamento, che doveva essere solo provvisorio. Nascono così le colonie. La prima viene fondata nel sec. VIII a.C. nell’isola di Ischia ad opera dei Calcidesi. Gli stessi Calcidesi fondano colonie a Cuma, Napoli, Reggio, Catania e Zancle (Messina), i Corinti ne fondano a Selinunte e Siracusa, i Rodiensi a Gela e Agrigento, gli Achei dell’Acaia a Sibari, Metaponto e Crotone, gli Spartani a Taranto, i Focei ad Elea.
Dapprima modeste, col tempo queste colonie si ingrandiscono e diventano delle vere e proprie città, organizzate sulla falsariga delle poleis elleniche. Fra loro inizia ben presto una rivalità per la conquista dell’egemonia, che diventa talvolta guerra aperta. Così, attorno al 510 a.C., a seguito di uno scontro tra Sibari e Crotone, Sibari viene rasa al suolo. Negli anni centrali del sec. V a.C., su iniziativa degli Ateniesi, viene fondata sul sito dell’antica Sibari la colonia di Turi, che è osteggiata dai Tarantini. Per evitare di essere fagogitate dai nuovi arrivati, le popolazioni indigene tendono ad unirsi intorno ad un capo comune, fino ad assumere dignità di “popolo”: sono i Campani, gli Irpini, i Lucani, i Siculi, i Sicani.

6.4.4.1. Come nasce una colonia
Ogni colonia ha una storia a sé e la maggior parte di queste storie non ci sono note. Possiamo però supporre che, in molti casi, le colonie sono state fondate con la forza e la violenza.
Prendiamo il caso della colonia di Elea, di cui abbiamo qualche notizia. Dopo l’occupazione persiana dell’Asia Minore (546), molti coloni focei, a bordo di navi, abbandonarono le loro terre e raggiunsero la Corsica, da dove flagellavano le coste tirreniche con azioni di razzie, tanto da indurre etruschi e cartaginesi a coalizzarsi ed entrare in guerra contro di loro. Usciti sconfitti (540), i focei lasciarono la Corsica e ripararono sulla costa lucana, dove fondarono la colonia di Elea.

6.4.5. Dal mito alla ragione
Mentre questi eventi accadono, l’uomo greco va sviluppando una propria cultura e getta le basi per il superamento della logica magico-mitico-religiosa, che ha caratterizzato il Sapiens fino a quel momento, svolgendo un importante ruolo funzionale. La pioggia, il vento, le acque, il fuoco, il caldo, il freddo, le stagioni, le malattie, i parassiti, le piante e gli animali, la vita e la morte, erano tutti fenomeni e fattori alquanto misteriosi e potenzialmente dannosi, nei confronti dei quali il Sapiens si sentiva impotente. Tuoni, fulmini, terremoti, inondazioni, erano terrificanti per i primi uomini, i quali guardavano ad essi come a manifestazioni di esseri viventi, cui si rivolgevano con preghiere e doni per propiziarsene i favori. Alla domanda «Perché piove?», uno sciamano avrebbe potuto rispondere: «Perché tal dio ammassa le nubi»; mentre, alla domanda «Perché non piove?», la risposta sarebbe potuta essere: «Perché tal dio disperde le nubi». E perché il dio si comporta ora in un modo ora nell’altro? Lo sciamano avrebbe potuto replicare: «Per punire l’uomo, o per premiarlo». Insomma, magia, religione e mito servivano all’uomo per controllare dei fenomeni naturali, di cui non aveva una chiara conoscenza e che, pertanto, generavano in lui ansia e paura.
Il mito viene da lontano, da una tradizione antica, che si perde all’inizio del tempo e rappresenta una verità eterna e immutabile. Esso perciò non è oggetto di discussione o di critica e dev’essere accettato senza discutere, come qualcosa di sacro o un dogma di fede. Sotto questo aspetto, mito e religione si somigliano: entrambi richiedono un’adesione incondizionata e non lasciano spazio alcuno alla libera ragione dell’individuo. In teoria, a nessuno è concessa la facoltà di modificare un mito, e tanto meno un dogma di fede, in pratica si lascia uno spazio per l’interpretazione, che però viene riservata in esclusiva a pochi eletti, in particolare a sciamani, sacerdoti, profeti e santoni. Nessun mito, o dogma, avrebbe potuto resistere alla prova del tempo se non fosse stato messo in forma scritta e, quindi, in qualche modo tradotto in parole e interpretato. Ora, non dobbiamo dimenticare che nelle epoche antiche la scrittura costituiva un’arte tra le più difficili ed elitarie, alla portata solo di pochi membri appartenenti alle famiglie dominanti. Almeno nella sua veste letteraria, il mito e il dogma prendevano forma all’interno dei palazzi e dei templi, all’interno cioè dei massimi centri del potere, ed è dunque probabile che essi rispecchiassero il punto di vista dei potenti dell’epoca. Mito, religione e tradizione, opportunamente interpretati, costituivano, dunque, lo strumento di cui si serviva il potere istituzionalizzato per legittimare se stesso e svolgevano la funzione di avallare l’ordinamento sociale vigente.
Ancora ai tempi di Omero, la cultura greca è prevalentemente di tipo magico-mitico-religioso e gli uomini si servono di racconti favolosi per spiegare tanto i fenomeni naturali quanto quelli sociali. Attraverso il mito, essi interpretano il mondo, danno risposte agli interrogativi esistenziali, fondano le origini gloriose di una polis o di un nobile casato, trasfigurano le realtà negative, come quelli della morte, della malattia e della sfortuna, orientano positivamente le proprie risposte emotive, si sentono rassicurati di fronte all’incerto e all’ignoto. Insomma, provvedono ad esorcizzare le proprie paure, a soddisfare il proprio bisogno di sicurezza e a far corrispondere i desideri con la realtà. Insieme alla magia e alla religione, il mito svolge, dunque, importanti funzioni sociali e psicologiche (KIRK 1993: 45-61), spiega fenomeni sociali e naturali, altrimenti incomprensibili, descrive le cause ultime del bene e del male, della vita e della morte, interpreta l’origine del cosmo, dà una risposta alla domanda di giustizia, rassicura la gente, legittima consuetudini e istituzioni vigenti, controlla, nel suo complesso, la realtà naturale e sociale.
Ebbene, nel corso del periodo arcaico, l’uomo greco comincia a diffidare dei racconti mitici e religiosi e della stessa tradizione, e dubita che essi siano una fonte di verità somma e indiscutibile, rifiuta la spiegazione mitica del cosmo e dell’uomo mondo e, sempre più, ricorre all’uso della ragione. Come dice Eraclito, “non si deve agire come figli dei propri genitori, ossia al modo che ci è stato tramandato” (fr. 74), ma vivere secondo ragione e liberarsi dall’idea che tutto ciò che è stato debba essere stato per necessità e che tutte le risposte date siano eterne e immodificabili. “Il vero lascito dei Greci è la ragione”, si dirà, ed è vero. Ciò non significa che i Greci riescono a liberarsi del tutto dai prodotti della pura immaginazione, ma solo che provano a farlo. E non è poco. È proprio in questo tentativo, infatti, che possiamo vedere uno dei più grandi apporti che la civiltà ellenica ha dato alla causa del progresso umano.
Un primo contributo al superamento del mito viene proprio da autori, come Omero ed Esiodo, che pure al mito fanno ampio ricorso. In particolare, la Teogonia di Esiodo, pur essendo un racconto mitologico, può essere visto come “un tentativo molto precoce di dare sistemazione unitaria a una congerie di materiali mitici, collocandoli all’interno di un quadro che, pur appartenendo a una fase ancora pre-scientifica, in virtù della sua universalità si pone già a mezza strada fra la variegata incoerenza degli antichi miti e l’approccio razionalistico del futuro” (Grant 1996: 238) . Ma coloro che scuotono con più energia l’ordine mitologico del cosmo sono certamente i primi filosofi, ossia Talete, Anassimandro e Anassimene, che vivono fra il VII e il VI sec. a Mileto, la città più importante della Ionia .
Questi filosofi, che chiamiamo naturalisti perché si occupano, appunto, del mondo fisico, giudicano le risposte mitiche e religiose come non razionali e, dunque, non credibili e perciò si impegnano a percorrere vie alternative, basate sull’esperienza. Partendo dal presupposto che tutto ciò che è naturale deve avere un principio, essi si chiedono: «Qual è il principio dal quale dipendono tutti i fenomeni naturali?». La risposta di Talete, «tutto comincia con l’acqua e finisce nell’acqua», farà sorridere l’uomo moderno, è vero, tuttavia, non si deve dimenticare che essa rappresenta il primo tentativo dell’uomo di dare una spiegazione, razionale e non mitologica, all’ordine del cosmo, la prima volta che l’uomo osa investigare autonomamente l’universo. Questo cambiamento di atteggiamento, questo voler passare dalla fantasia all’evidenza empirica, questa volontà di servirsi della ragione individuale per comprendere il mondo, tutto ciò segna la nascita del pensiero filosofico e scientifico e l’inizio di una nuova era.

6.4.6. Religioni misteriche nel mondo ellenico
Sono così chiamate alcune forme di culto, “non pienamente diffuse e istituzionalizzate, bensì individuali e praticate da gruppi ristretti” (FARIOLI 1998: 1) e in condizioni di segretezza. Ad esse tutti possono accedere, donne e schiavi compresi, ma solo attraverso un rito di iniziazione, che introduce il fedele in un cammino di salvezza, che si realizzerà dopo la morte, e che gli fa meritare, già in vita, i favori della divinità e l’allontanamento del male. Di norma viene richiesto un onere finanziario, che costituisce un limite per molti. Delle religioni misteriche fanno parte i misteri di Dioniso, di origine ellenica, i misteri di Iside e Osiride, di origine egizia, i misteri di Attis e Cibele, che provengono dall’Asia Minore, e i misteri orfici, che professano “la dottrina della trasmigrazione dell’anima, secondo la quale la parte immortale dell’uomo si incarna in numerosi corpi prima di aver portato a termine la propria purificazione” (FARIOLI 1998: 58). Dal momento che queste religioni sfuggono, almeno in parte, al controllo del potere politico, essere sono solitamente mal viste e talvolta costituiscono oggetto di repressione. Fanno eccezione i misteri eleusini, che sono considerati da Atene al pari della religione di Stato.

5. Medi e Persiani

Durante l’Età dei Metalli, l’altopiano iranico è abitato da numerose tribù nomadi, tra le quali si distinguono, per potenza, organizzazione e grandezza, quelle dei Medi e dei Parsi (o Persiani). I Medi sono insediati a sud del Mar Caspio e confinano ad ovest con l’Assiria e Babilonia, a sud con la Persia e la Susiana e ad est con la Partia, popolazioni con le quali devono misurarsi e competere. Sono i continui scontri a motivare i Medi ad unirsi fra loro sotto un solo re. Secondo Erodoto, è Deioce a realizzare questa unità, da cui prenderà origine il grande regno della Media, che ha per capitale Ecbatana (VII sec.). Quando Ciassare I, insieme agli alleati babilonesi, abbatte la potenza assira (612), la Media è all’apice della sua potenza.
Inizialmente controllate dai Medi, anche le tribù dei Persiani avvertono la necessità di rafforzarsi e anch’essi si uniscono, temporaneamente, sotto Achemenes, un capoclan, fondatore della dinastia degli Achemenidi (VII sec.), ma ben presto le diverse tribù riacquistano la loro indipendenza. Qualche tempo dopo, ci riprova un altro capoclan, Ciro il Grande (559-529), che, dopo aver combattuto vittoriosamente contro il re dei Medi Astiage (550), si fa proclamare re dei Medi e dei Persiani. Creso, affermato re della Lidia e alleato di Astiage, non può tollerare l’affronto di quel giovane condottiero che, provenendo dal nulla, insidia il suo potere, e avanza in armi, ma viene sconfitto (546). Caduta la Lidia, anche le città greche della Ionia si sottomettono. Poi è la volta di Babilonia, che si arrende quasi senza combattere (539). In poco più di dieci anni Ciro è riuscito a trasformare l’umile Persia in un vasto impero, che comprende innumerevoli popolazioni, tra loro assai diverse, che sono tenute insieme da un imponente apparato amministrativo, da una lingua comune, dalla diffusione dell’uso della moneta, dalla unificazione di pesi e misure, e, dunque, può essere considerato il “primo impero universale” (PETTINATO 1994b: 213).
L’impero persiano è suddiviso in province o satrapie, che sono affidate al controllo di governatori o satrapi, i quali formano una vera e propria aristocrazia guerriera, che affianca il re nel governo del paese. Il re è un sovrano assoluto divinizzato, che trae il suo potere direttamente dal dio Mazda e lo esercita per mezzo dei satrapi, che egli provvede a controllare per mezzo di propri funzionari, che hanno anche il compito di riscuotere i tributi. Le volontà del re, che sono legge, viaggiano a dorso di corrieri, che vengono cambiati in una serie di alberghi e scuderie dislocate lunga una rete viaria di discreta fattura. Di solito il re interviene nelle questioni di particolare importanza, mentre per tutto il resto lascia ampio spazio ai signori locali. La legge viene fatta rispettare con la forza e la forza è rappresentata dall’esercito, il cui nerbo è costituito dagli stessi Persiani, ossia dai conquistatori, i quali formano un corpo scelto dei diecimila “immortali”. Grazie anche ai bottini di guerra e ai tributi imposti alle popolazioni sottomesse, i re persiani accumulano ricchezze favolose, ma le ricchezze, come si sa, non danno pace e la vita di corte è segnata da intrighi e trame di ogni tipo, da cui lo stesso re deve guardarsi, mentre il paese è scosso da continue lotte dinastiche. La politica dei re persiani si caratterizza per la sua tolleranza, anche in campo religioso, così che le popolazioni assoggettate sono lasciate libere di mantenere i loro costumi e le loro fedi. Sotto il profilo filosofico-religioso, l’apporto originale dei pensatori persiani può essere individuato nel dualismo espresso dalla religione di Zoroastro o Zaratustra (VII-VI sec.).
Nel complesso, l’impero persiano è ben organizzato e, per di più, può contare su una solida legittimazione del re, che ricorda quella del faraone: sono le premesse di un sistema politico stabile e longevo, che difficilmente può implodere per cause interne, come congiure di palazzo o lotte dinastiche. L’impero persiano, come quello egizio, potrà crollare solo se attaccato da nemici esterni.

5.1. Zoroastrismo (o Mazdaismo)
In un periodo non ben precisato (probabilmente tra VII e VI sec. a.C., o forse anche prima), un certo Zarathustra (i greci lo chiameranno Zoroastro) fonda una religione, che sarà la più diffusa in Persia dall’età degli Achemenidi e fino alla conquista araba, e i cui sacerdoti, conosciuti dai greci col nome di Magi, diventeranno famosi perché di essi si farà menzione nei Vangeli cristiani. Zarathustra ritiene di essere stato eletto da Mazda come suo profeta e inviato a predicare ciò che il dio gli ha rivelato, in un periodo in cui il Male sembra prendere il sopravvento e la gente rischia di allontanarsi dalla vera fede. Lo zoroastrismo riconosce Mazda come creatore e unico dio (perciò è anche detto Mazdaismo), e, anche se ammette due princìpi indipendenti del mondo, uno del bene e uno del male, entrambi primordiali (il che indurrà molti ad indicarlo come una dottrina dualista), in realtà si tratta di una dottrina monoteista, dal momento che prevede, alla fine dei tempi, l’avvento di un Salvatore, che determinerà la sconfitta del dio del male e il trionfo eterno dell’unico dio (ROMANO 1998: 46). Dopo la morte, l’uomo, che è stato creato responsabile, ossia libero di scegliere fra bene e male, sarà giudicato in base alle proprie azioni e un secondo giudizio avverrà alla fine dei tempi, quando anche i corpi risorgeranno . Tutti sono chiamati a convertirsi e a prepararsi al giorno del Giudizio finale e Zarathustra è il modello da seguire. Proclamato religione di Stato dal re persiano Ciro II nel 549, il mazdaismo, a differenza del cristianesimo, si dimostra tollerante e “lascia in pace tutte le altre religioni” (ROMANO 1998: 99).

4. Fenici

Si affermano come popoli di navigatori e mercanti. Non solo, essi costituiscono insediamenti costieri, ma si addentrano nell’entroterra, dove creano dei capisaldi militari a protezione delle loro attività commerciali (MOSCATI 1987: 107).

2. Arabi

Gli arabi costituiscono una delle numerose popolazioni nomadi, che affollano la Mezzaluna Fertile. Insediati in un paese povero di risorse, le popolazioni arabe, sin da quando possono muoversi a dorso di cammello , devono cercare altrove i beni di cui sono carenti, con incursioni nei paesi limitrofi. Si sa che una di queste viene respinta dagli assiri (VIII secolo). Per quel che sappiamo, la prima attestazione del termine «Arabi» (che significa “nomadi, beduini, abitanti del deserto”) risale ad un testo del re assiro Salmamassar III (858-824), il quale menziona una sua vittoria su una coalizione in cui è presente anche un contingente di cammellieri arabi (GUARDI 1997: 3-4). Di arabi si parla anche in Genesi (10, 24-25; 25, 1-4) e in Geremia (25, 24). Gli arabi abitano nella penisola omonima, dove non mancano realtà cittadine ben organizzate, e si caratterizzano per un’economia legata principalmente all’allevamento dei dromedari.
Il loro ingresso nella storia avviene intorno al XII-XI secolo, quando, grazie all’introduzione di una particolare sella, che comporta una migliore stabilità del cammelliere, oltre ad una migliore distribuzione dei pesi sul dorso del dromedario e una maggiore agilità e velocità nei movimenti, essi cominciano ad impegnarsi in attività di razzie o di guerra, fino ad assumere un rilevante peso politico e rivaleggiare con le città. Queste antiche popolazioni tribali si organizzano in dominî, sotto la guida di un capo, detto sayh –sceicco, anziano saggio–, che viene eletto, fra gli anziani, in base alle sue qualità e alle necessità del momento (GUARDI 1997: 6).
Ogni tribù adora proprie divinità tutelari, ma esistono anche divinità comuni, i cui santuari, molto rudimentali (poco più che un ammasso di pietre), disseminati qua e là nel vasto territorio calpestato dai beduini, costituiscono luoghi di culto e di sacrifici per diverse tribù (GUARDI 1997: 9), e rappresentano, insieme alla lingua, un potente elemento di coesione, che diventa decisivo in caso di difficoltà interne o di minacce esterne.